Luglio 2016
Per Pietro Zucca scultura è archetipo di scissione, attraversamento, sospensione. Originario di Desenzano del Garda (Brescia, 1982), da diversi anni ha deciso di stabilirsi a Roma. Diploma in Scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Brera e corsi di perfezionamento tra la Facoltà di Architettura di Valle Giulia e quella di Beni Culturali di Viterbo. Una esperienza espositiva non sempre messa al primo piano, tra cui sono da ricordare la doppia personale da poco conclusasi presso la White Noise Gallery (Roma, 2016); le esperienze di Giovani Scultori Alla Permanente (Palazzo della Permanente, Milano) e dello Yachting Festival di Cannes (realizzazione di opere installative per Yachts in collaborazione con Piero Orlando), entrambi del 2014; la partecipazione alla 55° Biennale di Venezia, Padiglione Arsenale (Biennale session-Accademia di Brera, 2013); la performance Cartagigliodress per il progetto Gameowerflow (MACRo via Nizza, 2011); e l’intervento alla X Biennale di Architettura di Venezia, Padiglione Francia nel 2006.
Il 2016 è stato particolarmente impegnativo: numerose le mostre e le collaborazioni con architetti e designer; un ciclo di lavori chiuso e l’inizio di una nuova fase di sperimentazione. «Non mi muovo dallo studio: sto preparando una scultura di tre metri da mettere dentro il giardino della Luiss il 27 giugno a viale Romania (Terapie d’urto – Volumi, che nel frattempo ha inaugurato), e sto continuando con i progetti di design, soprattutto esecuzione, eventualmente consulenza su questioni tecniche o estetiche. Sono pieno di cose da fare, una dietro l’altra».
Questo mi porta subito a chiederti come sopravvive un giovane artista oggi, a Roma nello specifico. Tu hai anche l’esperienza di Milano e di una serie di città che si possono mettere a confronto. Se ha ancora senso fare una distinzione tra centri diversi.
La difficoltà è cercare di capire come inserirsi professionalmente dentro un mercato che sia vario. L’artista è tante cose, una persona che ha esperienza su un dato tipo di materiali, ha la capacità di comprendere quale componente possa essere rivisitata in un oggetto. Mi dedico alla mia linea di scultura ma faccio anche l’artista applicato.
Nonostante alcuni impegni si limitino all’esecuzione su disegno altrui, spesso invece gli oggetti che crei – sempre su commissione di architetti – non sono altro che tue opere ma dotate di funzione. Cosa cambia a livello progettuale quando ti confronti con il prodotto di design?
È un apporto dentro un team che sta realizzando qualcosa. In qualche modo esci dal tuo lavoro, ne allarghi le possibilità, ma abbandoni tutto il discorso di poetica. Uno dei problemi più interessanti è che hai a che fare con una dimensione dell’oggetto che è diversa. Non parlo di grandezza: l’utilità ne vincola il rapporto con lo spazio, ha delle regole precise. Inoltre ti spiazza perché è come un reinterpretare te stesso. La scultura nasce libera; è spesso autoportante, quindi prende una sua vita indipendente. È questo che mi interessa: spazio puro e sua perimetrazione. Quando studio un elemento di design sono legato a un’altra visione dei volumi.
Vero è anche che tra le arti è forse proprio la scultura che risente maggiormente di condizionamenti esterni. Prendi un lavoro site specific: ti devi continuamente confrontare con l’architettura o l’ambiente, la storia e tutti quei segni lasciati sulla sua pelle.
Però il prodotto che metterò è il derivato di un profondo senso dell’interiore. Nonostante siano 15 anni che faccio scultura, è come se fossi ancora dentro la mia pancia e tutto è collegato al senso del mio rapporto con il mondo. Tornando al design: potrebbe essere un passo in avanti, un evincere da sé, un guardarsi dal di fuori, applicare una conoscenza per qualcosa di completamente impersonale: un oggetto che non trasmette più energia ma comunica, una sua utilità, una sua istanza precisa.
Parli di pancia. I tuoi ultimi lavori sono dei viluppi di sottili barre di ferro sospesi a mezz’aria. Viscere e geometria insieme…
Nasce tutto dalla pancia e da una intuizione. Quando ero libero, acerbo, inespresso, i primi tempi dell’Accademia, mi rendevo conto che non sapevo fare una scultura però avevo la capacità di pensarmi agganciato al vuoto. La visceralità riguarda questa forma di libertà, dello spazio che si apre.
La geometria, e la delimitazione dello spazio, mi riportano al tuo bisogno di approfondire e studiare parallelamente architettura. Hai sentito la necessità di lavorare su dei vettori che non fossero solo di forma ma anche di vita e di relazioni?
Sono andato all’Accademia credendo che la scultura fosse quella cosa in bronzo sul piedistallo. Poi, incominciando a liberare forza e intuizioni, mi sono reso conto che avevo bisogno del cosiddetto spazio totale. Mi sono avvicinato a cattedre che si occupavano anche di azioni, performance, di spazio pubblico. Così sono uscito nella città e ho iniziato a arredare dei veri e propri muri a Porta Ticinese a Milano e creare delle foreste di legni flessibili che vi si arrampicavano. Avevo la necessità di aggrapparmi liberamente all’aria e realizzare dei segni nel vuoto.
Dallo spazio pubblico, alle azioni collettive, alla scultura di piccolo formato. Sembra che il tuo percorso sia inverso rispetto a quello dei tuoi colleghi…
Qui è l’energia dell’artista che traspare in maniera acerba, quasi dissonante. Successivamente ho voluto comprendere meglio: nel 2006 ad esempio sono venuto a Roma a fare un workshop nell’ex Mattatoio dove si chiedeva di ragionare sui suoi muri di confine e sul rapporto tra interno e esterno. E questo mi riportava alla scultura, anche abbastanza classica, moderna, pensa a Rodin. Ho immaginato che il mio lavoro diventasse grande come un perimetro di cinta, un diaframma che potesse lasciare intravedere dentro e fuori, creare un valico, un passaggio. Una cosa che mi ha sempre interessato è come fanno le persone a vivere; se vuoi andare verso gli altri ti catalizzi in un luogo che non è più quello dello studio ma della città; città come un grande teatro. Sono le stesse cose che mi hanno avvicinato all’architettura come disegno. Ho fatto un master sul segno della progettazione architettonica, l’intento più artistico della costruzione, come se il prospetto fosse una mappa dei tesori, un’opera a sé. Poi non sono un architetto, sono sempre restato dentro la scultura, però ho voluto trarre influenze dallo spazio esterno.
E come si traduce nella scultura?
Si traduce nel segno. Il mio strumento è il segno. Come se io continuassi a traslare nel materiale il senso del disegnare, del progetto, che diventa poi una linea che perimetra uno spazio immaginario, privo di funzioni, ma uno spazio poetico, una gabbia per il vuoto, uno spazio impossibile.
Dunque forma pura…
È una sintesi. Negli anni mi sono innamorato di tante cose, ho fatto esperimenti con opere mobili in teatro, ho realizzato delle azioni vere e proprie per le strade sia qui a Roma che a Venezia e Viterbo, però sono uno scultore e voglio che il senso di tutto questo diventi una sintesi, un elemento in metallo che delinea una città svincolata dalla terra, dalle istanze più meschine. Proporre un’immaginazione veramente libera.
Delle tue sculture parli di trasparenza e sovrapposizione, transitorietà e mutazione, distanza e unione.
Innanzitutto c’entra l’immagine di una città che come per magia cambia, ha un’identità esterna e interna che non comunicano. E riguarda l’idea dello sguardo che (non) riesce ad andare all’orizzonte. Come se creassi delle impressioni con un ingranditore, un fotomontaggio di più cose. Dare la possibilità all’occhio di vedere e vedere e oltre, tante azioni insieme. Nella mia scultura è un discorso che sto ancora affrontando. Mi ci sto avvicinando magari in maniera un po’ grottesca progettando delle vere e proprie sovrapposizioni. C’è questo concetto che mi affascina, di essere in un posto, sentirne il rumore, il mutamento, e poterlo descrivere in un’immagine sola, in una linea, una sintesi.
Ultimamente il ferro è diventato il tuo strumento prediletto, e dietro vi è una simbologia ben precisa.
Inizialmente non mi interessava il discorso sulla materia, poi mi sono accorto che il materiale è interessante per la sua libertà: ha delle possibilità e attraverso di esse ti muovi cercando un confronto. Però non sono imperativo. Il ferro mi affascina perché è potente, tagliente, efficace, leggero. E nella sua storia di elemento naturale è piovuto dal cielo come un meteorite. Da un punto di vista poetico trattiene l’aspetto di una spazialità gigantesca: vive di una dimensione terrestre però contiene il firmamento, e io faccio case per il vuoto.
Spiegami meglio: vuoto come qualcosa da guardare, gestire, riempire? Lo attraversi, lo ingabbi, disciplini, abbellisci o rendi vivibile?
È come se facessi free climbing; la cosa più vicina che c’è ai segni della mia scultura sono le scie dell’aereo, delle linee che disegnano nello spazio. Più che per vivere il vuoto, voglio dare una chiave per vivere un sogno, affermare che può esistere un piacere nel guardare e meditare. Il vuoto è anche solitudine, allontanarmi dalla paura e provare a volarci dentro sempre più libero. Ogni scultura è una vita che nasce; è una crescita.
La città, il vuoto, pancia e volo… si iniziano a delineare una serie di parole chiave che individuano la tua poetica.
A Brera mi è servita molto la cattedra di Anatomia, che era qualcosa di non tradizionale, all’avanguardia. Siamo partiti dai disegni sulle modelle in movimento, con qualsiasi tecnica, per passare ai riti di iniziazione delle popolazione nel mondo. Una sorta di anatomia e antropologia insieme che spiegava la crescita, il passaggio, riportandoli allo spazio attraverso il mito del labirinto, dell’orientamento, dell’orecchio. Cioè riconducendoli a una dimensione ancestrale della pancia e alla possibilità del volo, volare fuori dal labirinto. Attraverso questi spunti ho cominciato a sviluppare tutto.
Dicevi che sono ormai 15 anni che lavori. Che evoluzione c’è stata nelle tue sculture? Le prime, ad esempio, erano soprattutto di superficie…
Se argomenti lo spazio, il vuoto, c’è questa perversione di andare verso il pieno, la necessità di un riscontro tra i due opposti. E non è detto che questa ricerca non riemerga, anzi, piano piano vi sto ritornando. Ho rappresentato il pieno piatto, col materiale che escludeva ogni passaggio, visione. Le prossime sculture invece le avvicinerò a dei piani; dopo anni di astrazione totale e l’esperienza con architetti e designer, voglio che il lavoro si riagganci alle tematiche della vita quotidiana e dello spazio architettonico. E ripensare al site specific.
Sono opere in cantiere per una mostra in particolare?
Le realizzo nella maniera più libera, fare una scultura per farla; dare un calcio alle vecchie e cominciare con le nuove. Dopo 2, 3, 4 lavori simili per me è chiuso. Il discorso rimane, però deve evolversi, e il modo migliore è non avere nessuna committenza. È quello il momento della ricerca.
Usi sempre più di frequente il colore, che quando ti ho conosciuto, invece, non amavi…
Voglio rendere la scultura leggera, che vada verso una dimensione del gioco. Inizialmente ero abituato con le patine a caldo, facevo le mie soluzioni con gli acidi con cui mi intossicavo, ero alchimista e adoravo. E ci sono cose che stanno uscendo ancora così, dei 30×30. Poi ho trovato alcuni toni che mi interessano, degli azzurri, dei verdi che si avvicinano alla natura, a una campionatura dei colori naturali. Desidero che un’opera sia seria perché ben fatta, cioè che trasmetta qualcosa, ma non che debba fare la faccia seriosa per essere seria. Si può dire tanto anche essendo divertiti. Mascherare la superficie inoltre serve a togliere quella patina del tempo che ostenta forza, pesantezza, stabilità, valore economico, qualità del materiale. Il colore gli dà questa nuova emotività, più leggera.
Preferisci le sculture di piccolo formato?
Mi piacciono perché sono curate; amo il fatto che un oggetto possa essere tenuto in mano e possa entrare in una dimensione molto personale. La scultura deve essere levigata come un gioiello e non deve esserci il segno della fatica, della lavorazione; nascere quasi del nulla, dal vuoto. Il piccolo formato permette di concederti tempo da dedicarle, da cui traspare una energia maggiore.
Quali artisti ti hanno segnato, a chi ti senti più vicino?
Segnato, Chillida; meno conosciuto Riccardo Murelli, che tratta i materiali dolcemente, per quello che sono, senza metterci del viscerale, però non creando cose asettiche, lasciando trasparire emozioni forti. Gli basta veramente un tocco, una disposizione nel comprendere. Ho cercato di studiarlo con lo sguardo per capire questa leggerezza che non è frivolezza. Murelli era amico del professore che ho seguito nel mio percorso sull’architettura, Massimo Mazzone, lo scultore che ha realizzato le colonne di Eindhoven; anche lui mi ha influenzato. Mi interessa la geometria, il calcolo e la misura di Carrino. Poi c’è Lars Englund, artista svedese che ho rincorso per fare la tesi in Svezia, che crea forme definite da linee con materiali come kevlar e vetroresine. Per delimitare spazi vuoti. Fausto Melotti è importante. Mi sento vicino a Daniele Nitti Sotres, che è stato un mio compagno di Accademia. Lui utilizza il ferro in maniera più potente e passionale di me, ma ha questo problema di aggregare due materie, due elementi diversi.
Per concludere, ritornando quasi alla domanda iniziale: mostre in spazi pubblici e privati, collaborazioni con diverse istituzioni, residenze… Come si deve muovere un giovane artista oggi?
La cosa migliore per me è riuscire a catalizzare le propria professionalità dentro diversi tipi di settore. Ci sono le gallerie grosse che saturano il mercato, e un giovane artista non ha accesso a questo tipo di realtà. Perciò umiltà, produrre lavori piccoli e cercare comunque rapporti con gallerie attive sulla promozione di nuovi autori più che per una questione commerciale per trovare qualcuno con cui interloquire. Perché è fondamentale. Secondo, inserire i lavori in altri contesti perché non è detto che dove tutti si infilano sia la strada giusta. Andare al di fuori di questo meccanismo, trovare la risposta in un pubblico differente. Il riscontro con altri artisti, quando ti accettano come collega, è il passo fondamentale che ti avvicina al mondo dell’arte; la stima spesso nasce da quello. Infine i collezionisti: io ne ho pochi, a Bordeaux e in Spagna, conosciuti al di fuori del circuito delle gallerie. Il rapporto col collezionista è bello perché di base c’è un amore per l’arte e un piacere per la persona. C’è un modo di dialogare in cui ci si vuole bene. C’è uno scambio umano.
Immagini:
Copertina – Pietro Zucca, Elemento Verticale, 2012
1- Pietro Zucca, Arciere, 2016 – scultura presentata alla Luiss Guido Carli
2- Pietro Zucca, Supernova – ferro – courtesy White Noise Gallery
3- NUMERI PRIMI fatti@arte, 2016 – dalla collaborazione con lo Studio di architettura Bertuglia
4 e 5- Pietro Zucca, Between of a Diaphragm; Pietro Zucca, Sostenibile, 2012
6 e 7- Pietro Zucca, Tensione costruttiva, Ferro, legno; Stellare, 2015, ferro e smalti industriali
8- Pietro Zucca, dalla mostra Supernova • geometrie in espansione, 2016 – in mostra presso la White Noise Gallery