Di Carlotta Monteverde
Classe 1957, spirito nomade e irrequieto, Kiddy Citny cresce nell’ambiente musicale alternativo fondando dapprima il progetto O.U.T. e nell’81 gli Sprung aus den Wolken, celebre gruppo post punk tutt’ora attivo. Pioniere del graffitismo e rappresentante della più vitale cultura underground di fine millennio, Citny inizia a ricoprire a partire dal 1984, con immagini e messaggi di libertà, la parte ovest (l’unica dipinta fino alla caduta) della barriera che per 28 anni ha spaccato in due Berlino. Interpretati come simboli di speranza e disobbedienza, i suoi Re e le sue FacesHearts, enormi volti coronati o facce dalla forma di cuore, presenze rassicuranti sulla grigia assurdità della cortina, hanno sorvegliato dai loro oltre tre metri di altezza alcune delle pagine più inquietanti della storia. Dagli anni ’90 traspone i suoi soggetti sulla tela, intraprendendo una solida carriera con esposizioni in musei e gallerie private ai quattro angoli del globo. Del periodo della “clandestinità”, delle scorribande notturne per lasciare il proprio marchio nelle vie, porta con sé quelle doti di universalità, di agilità di esecuzione, e un tratto crudo e nervoso, caratteristico di numerosa arte tedesca.
Lo ho incontrato a Roma dove è in corso, fino al 21 novembre alla BQB Art Gallery, la mostra Die Welt im Arm.
Quando sei arrivato nell’isola, così la chiamavano, non eri ancora ventenne. Cosa ti aspettavi di trovare? E quale atmosfera ti ha accolto?
La città da cui provengo, Brema, era diventata troppo piccola per me. Giovane, selvaggio e curioso – dell’arte, della vita – ho deciso di andarmene. Berlino a quei tempi era speciale, fuori dell’ordinario, e nel 1975 ho pensato fosse la destinazione giusta. Aveva ancora la funzione di capitale, all’ombra della Guerra Fredda e delle proteste degli studenti, e dava opportunità come se “tutto fosse possibile”.
Prima di iniziare a dipingere facevi parte della scena musicale, durante gli anni ’70 con il progetto O.U.T., mentre nel decennio successivo con gli Sprung aus den Wolken. Mi parli di queste due diverse esperienze?
Sono finito nell’underground berlinese inizialmente perché parte di una compagnia teatrale, Transplantis. Gli O.U.T., che erano un gruppo, hanno cominciato suonando per l’Europa, vivendo tra gli squat di Amsterdam, Londra e Zurigo. E con loro, che ho contribuito a fondare, ho creato il Babylon will fall Show. Gli Sprung aus den Wolken nascono invece come one man band, con cui nel 1981 ho partecipato al Festival Genialer Dilletanten.
Quanto pittura e musica si sono influenzate?
Suono e visione appartengono l’una all’altra, e già dal 1982, prima che con Thierry Noir cominciassi a far graffiti, realizzavo dei live painting in circuiti alternativi. Amo fare performance utilizzando i miei suoni, ottengo una risonanza immediata. Infine, non posso fare a meno di ascoltare brani quando dipingo.
Il tuo primo intervento sul Muro è del 1984. Qual era la situazione quando hai deciso di operarvi sopra? Era già ricoperto d’arte?
Fino ad allora la cucina era il mio studio, e il pubblico quello delle esposizioni underground. C’era la fottuta Guerra Fredda e avrei voluto compiere l’assurdo, trasformare Berlino Est, la capitale della DDR, in un museo. Sul nostro lato, quello ovest, invece, c’erano solo scritte politiche, così abbiamo deciso di rinfrescarle e abbiamo affrontato la lunga sezione Waldemarstrasse / Kreuzberg.
A dispetto di quanto viene ricordato – penso ad esempio a Keith Haring, che arrivò a Checkpoint Charlie con il muro già preparato e circondato da televisioni e media – voi rischiavate ogni volta. Puoi raccontarmi le condizioni in cui lavoravate?
In qualche modo riuscivamo a organizzarci coi colori e partivamo. Il Muro era sul territorio della DDR per cui non ci dovevamo nascondere dalla polizia o dai militari americani; dovevamo controllare i Grepos – Grenzpolizisten (Guardie di Frontiera) della Repubblica Democratica. Un amico, Christophe Bouchet, fu arrestato e lo tennero una notte in prigione, per poi cacciarlo il giorno seguente. È anche vero che la DDR aveva un perfetto sistema di sicurezza, la Stasi, quindi sapevano esattamente chi fossimo. Ricordo che il Governo di Berlino stampò un libretto sulla Bureaukratie coi nostri interventi sulla copertina; infine Wim Wenders girò Il cielo sopra Berlino proprio di fronte ai graffiti e da quel momento arrivarono molti turisti, scattando foto, ecc…
Quali erano i temi che affrontavi?
Ho cominciato nel 1984 con le immagini chiamate Queens, Kings, e Hearts perché il messaggio era, ed è ancora, che ognuno si debba sentire e comportare come un re o una regina e ricordare le gioie della vita. Il cuore indicava la separazione tra Est e Ovest, e così li riportarvo di nuovo assieme. L’essenza è che un cuore da solo non cambierà mai niente, due assieme invece significano amore. La serie successiva de Il Mondo tra le braccia era per far comprendere alle persone che c’è solo una terra e che ce ne dovremmo prendere cura. Una volta terminati, ogni sei mesi restauravamo i graffiti eseguiti e chi passava di là capiva subito il discorso semplice.
Dopo l’abbattimento del Muro hai iniziato a lavorare con le gallerie usando un linguaggio analogo. Credi che ci sia bisogno anche oggi di questo messaggio?
Come pittore nella scelta di un contenuto ho tutta la libertà che voglio, posso trasformare i miei sensi in forma e colore e rendere visibile ogni stato mentale. Posso dipingere ovunque e in qualsiasi momento. L’arte è la più alta forma di comunicazione e deve raggiungere tutti: una espressione in grado di toccare la vita quotidiana. È importante che le mie opere siano animate, abbiano una ripercussione positiva: felicità, serenità, piacere, una risonanza ottimistica. E il massimo è se lo spettatore decide in modo attivo e creativo di partecipare al processo di miglioramento del mondo.
Hai uno stile nervoso, veloce, aggressivo a volte. Quanto l’arte ufficiale tedesca degli anni ’70 e ’80 ti ha influenzato?
Non mi ha condizionato allora e non lo fa adesso. Quando preparo delle mostre o studio nuove serie, circa la metà dell’anno, ignoro gli opening, i musei, le gallerie, vivo come un eremita. Ascolto solo le mie emozioni e il battito del mio cuore.
Come si è evoluta la tua carriera? Hai avuto molte esposizioni istituzionali, e numerosi tuoi lavori sono ospitati in musei e collezioni private. Hai ottenuto subito un interesse da parte dell’establishment o sei stato inizialmente relegato in una posizione marginale?
La scena ufficiale mi ha ignorato per lungo tempo: curatori, musei, ecc… Anche perché, fortunatamente, non provenivo da una scuola o da un circuito riconosciuto. Sono un autodidatta, ho imparato tutto per conto mio. E sono ancora grato di poter fare quello che amo. Non ho contratti e mi sento libero.
Ormai sono passati più di trent’anni da quando hai preso il primo pennello in mano. Quanto è cambiato il tuo approccio?
Per crescere ho bisogno di cercare e distruggere, provare nuove tecniche, modificare il mio punto di vista e le mie abitudini. Ogni nuovo dipinto è una sfida. E non finirà mai.
Stai anche sperimentando con la moda. Mi parli di questa esperienza?
La maggior parte della collezione è composta da pezzi unici, dipinti su tela, haute couture. Solo pochi vestiti sono composti da tessuti stampati. È stata una esperienza interessante. La moda dovrebbe essere arte da indossare.
Nato a Stoccarda e cresciuto a Brema, Kiddy Citny (1957) arriva a Berlino nel ’76 dove, tra una serie di pause – nel ’79 è ad Amsterdam e Londra, nell’80 a Zurigo, negli anni 1989-1990 a Berna, nel ’93 e nel ‘94 a Los Angeles e nel 2000 a Monaco – tutt’ora vive e lavora. Conosciuto soprattutto per essere stato tra i primi ad intervenire sul Muro, ricoprendo di graffiti metri e metri di cortina, durante lo smantellamento molte delle sue sezioni sono state vendute e oggi si trovano sparse tra l’Europa e l’America. Dedicatosi prioritariamente alla pittura dagli inizi dei ’90, ha preso parte alla East Side Gallery, la più lunga galleria d’arte all’aperto al mondo. Ha esposto a Amburgo, Monaco, Colonia, Berlino, Merano, Parigi, Vienna, New York, Los Angeles, Dubai e Bangkok. Sue opere sono presenti in modo permanente in musei e spazi pubblici: al Märkisches Museum di Berlino; a La Defense (Parigi); a New York in 53rd St.Plaza e nell’Intrepid Museum; a Leipziger Platz e Potsdamer Platz, Berlino; al Salsali Private Museum, Dubai e al Musee-Würth, Francia.