“Una delle funzioni dell’arte é di dare alle persone gli strumenti per fare proprie le loro esperienze. Narrare storie non é altro che uno strumento per conoscere chi siamo e quello che vogliamo” (Ursula K. Le Guin). Neil Gaiman aggiunge che “un tempo, quando gli animali parlavano e i fiumi cantavano e ogni avventura valeva la pena essere intrapresa, le favole erano per adulti”. Anche Joseph Campbell si unisce per ricordare che le favole e i racconti che oggi conosciamo non sono altro che gli eredi del mito. Fornendo modelli, impersonificando ostacoli in essere reali o immaginari attraverso la finzione del mito, la tradizione orale ha tramandato veri e propri processi di iniziazione attraverso il racconto. Nell’ “Eroe dai mille volti”, Campbell elabora ulteriormente questo concetto. Ogni persona é un eroe ed eroina all’interno della propria avventura. In questo viaggio, l’essere umano si imbatte in ostacoli, difficoltà, prove da superare. Ognuno di questi elementi é li per mettere alla prova, affinché l’eroina o l’eroe capiscano l’importanza del viaggio e della ricerca che questo comporta.
Sono innumerevoli gli esempi di come questo modello si sia trasposto in letteratura. Dal ‘Moby Dick’ di Melville, al ‘Sognatore di Sogni’ di Maria di Romania, alle favole norvegesi di ‘Ad Est del Sole, ad Ovest della Luna’ di Peter Christen Asbjørnsen e Jørgen Moe, al ragazzo di ‘Un’estate Meravigliosa’, all’ ‘Ulisse’ di Joyce o di Omero, sono innumerevoli i personaggi che hanno intrapreso un’avventura, un viaggio alla ricerca di un qualcosa, per poi raggiungerlo solo dopo aver superato tempeste, ninfe incantatrici, regine delle nevi, streghe del bosco, valli oscure, ciclopi e capitani testardi. Nessuno tra le avventuriere e gli avventurieri che si sono spinti attraverso un viaggio sono arrivati a destinazione gli stessi. Ma tutti hanno sfidato gli stessi ostacoli. Ogni avventura sembra svolgersi attraverso un percorso circolare di allontanamento, di battaglia o di difficoltà, di consapevolezza e di raggiungimento della meta. Ognuna di queste fasi comprende sempre elementi reali o fantastici che rappresentano allegorie e metafore per indirizzare l’eroe e l’eroina attraverso il percorso. Neil Gaiman nella sua deliziosa storia breve ‘Istruzioni’ non fa che semplificare questo processo, e svelare cosa e di chi fidarsi quando ci si avventura in una favola. Prima di lui, Carl G. Jung ha fatto lo stesso, dando gli strumenti attraverso la teoria degli archetipi per l’interpretazione dei miti, dei sogni e dei racconti.
Jung definisce l’archetipo “una serie di simboli e di forme che rappresentano un sistema di significati riconosciuti universalmente” e che ci vengono tramandati attraverso quello che viene definito l’inconscio collettivo, ovvero quella conoscenza intrinseca che ogni persona ha, indipendentemente dalla società di appartenenza. In questo modo, elementi come l’acqua, il vecchio saggio, la strega, la madre sono li a simboleggiare qualcos’altro: l’inconscio, l’anima, la propria parte oscura. È proprio l’universalità di queste metafore ad aver permesso a Clarissa Pinkola Estés di scrivere ‘Donne che corrono con i lupi,’ uno dei libri piú complessi ed affascinanti della letteratura moderna.
Rifacendosi all’interpretazione dell’archetipo jungiano, e combinandola con la tradizione fiabesca delle proprie origini, quello che Pikola Estés compie con ‘Donne che corrono con i lupi’ è la costruzione di un percorso di scoperta e iniziazione, principalmente femminile. Per Campbell, la ragione per cui la maggior parte dei miti ha come protagonista un uomo deriva dal fatto che quest’ultimo, a differenza della donna, è privato di quel percorso di iniziazione e di maturazione che la biologia ha riservato alla donna attraverso il ciclo mestruale. A differenza delle donne, gli uomini hanno dovuto inventare e costruire rituali di iniziazione (alla caccia, al sesso) per marcare il passaggio dalla pubertà all’età adulta. Il mito e le favole ne sono la trasfigurazione orale. Di conseguenza, la principessa da salvare non rappresenta, come la maggior parte della letteratura sostiene, la donna da salvare, quanto la scoperta da parte dell’uomo della sua parte piu’ nobile, l’anima, che nell’archetipo jungiano è proprio la donna. Se, tuttavia, la donna è iniziata alla vita dalla natura stessa, la società e il ruolo che questa società le ha assegnato, l’ha spesso spogliata della sua propria natura. Le ha fatto perdere il contatto con la sua anima, nel senso jungiano del termine.
Quello che l’Estés con maestria e passione compie in questo libro è tracciare un percorso di indirizzamento delle donne volto a riavvicinarle con la loro forza creatrice, la loro indipendenza. Raccontando dapprima le storie narrate nella tradizione orale europea e latino americana, per poi esaminarle sotto un aspetto psicoanalitico, l’autrice mira a spiegare il ruolo dei mostri, delle streghe, delle foreste e delle stanze buie affinché le donne possano ritrovare il loro corrispettivo nella vita reale e sconfiggerli. In un’alternanza di narrazione e di analisi, l’Estés va a rivelare quelli archetipi che attraverso il racconto parlano del quotidiano, dei carcerieri, dei torturatori.
Il titolo del libro è, nell’avviso di chi scrive, fuorviante, in quanto rischia di far passare questo testo come un libro per casalinghe disperate o per donne sull’orlo di una crisi di nervi che mirano a dimostrare la loro natura selvaggia. In realtà questo è un libro prezioso e squisitamente complesso. Se la chiave di lettura è probabilmente unica, le sue interpretazioni sono molteplici e dipendono dalla curiosità e capacità di chi legge.
‘Donne che corrono con i lupi’ è un tentativo, probabilmente riuscito, di ridare al racconto il suo ruolo di guida. Come Gaiman nel suo racconto breve, la Estés mira ad accompagnare l’eroina nella sua avventura nel bosco, farle scoprire che altre prima di lei sono scappate dalla casa di Barbablu, sono sopravvissute a Baba Yaga e sebbene private delle mani, sono riuscite a costruirsi la vita che volevano.