Con una genesi tortuosa, Fata Morgana ha preso vita il 23 luglio 2017 in Valle d’Aosta, a due anni dall’ultimo grande intervento in scala ambientale di Alberto Timossi. L’installazione, una fioritura artificiale di decine di elementi verticali rossi sul lago del Col d’Olen a 2722 metri di quota, riflette l’impegno dell’artista verso tematiche legate alla natura, all’ecologia, al rapporto tra uomo e ecosistema. È un progetto a cavallo tra arte e divulgazione scientifica che tocca questioni come cambiamento climatico, scioglimento dei ghiacci, Antropocene. Per la mostra, a cura Takeawaygallery, ho scritto il testo critico, preceduto da una lunga chiacchierata con l’autore che qui pubblico.
Carlotta Monteverde: Sono quasi due decenni che operi in spazi pubblici. Hai inizialmente prediletto le grandi città per creare interstizi nel caos metropolitano ma da qualche tempo hai spostato la tua attenzione verso luoghi al di fuori dei centri abitati. Potresti ripercorrere brevemente questi passaggi?
Alberto Timossi: L’interesse è sempre stato rivolto alla scultura ambientale: dagli interventi urbani, gli Innesti, quindi ai tubi che attraversano i muri dei palazzi e dialogano con piazze e contesti storici sono via via passato a pensare una scultura inserita nella natura, scoprendo un coinvolgimento marcato perché oltre a sentirne l’esigenza concettualmente è anche più vicina al mio ideale di vita. Ho dunque ritrovato un piacere di lavoro, ed è avvenuto per caso, nel 2013, quando ho partecipato alla prima Biennale di Piazzola sul Brenta con un’opera che usciva da un canale, dei Flussi verticali manipolati in basso e poi puliti, minimali, verso l’alto. Da lì ho continuato a riflettere sul rapporto dell’arte con l’acqua.
Si tratta comunque di contesti antropizzati…
Realtà di parchi urbani o di architettura storica dove è predominante l’acqua. Nella rassegna di Beelden in Gees, in Olanda, ho realizzato una installazione sul lago, mentre per la Sesta Triennale di Scultura di Bad Ragaz e Vaduz in Svizzera ho lavorato su un prato creando Flussifiore, cinque elementi che dialogano fra loro in cerchio. Un altro esempio è l’esposizione presso la fonte di San Nicolò ad Assisi in cui c’è un Flusso che fa una curva, plana sulla superficie ed è inserito tra un arco in pietra, una volta, e una vasca piena del 1300. Poi c’è stata la grande scultura di Carrara del 2015 che ha aperto prospettive nuove perché il territorio così deformato, così modificato dall’uomo mi ha portato a riflettere su aspetti quali l’Antropocene e su come l’arte possa dire la sua sul cambiamento climatico. Adesso mi sto dedicando a questo.
L’idea di operare in montagna nasce da un rapporto personale con quei luoghi?
Dalla mia passione per il ghiacciaio, che scalo: quasi tutte le cime del Monte Rosa le ho salite. E comincio a vedere differenze tra come erano e come sono diventate.
Nel 2015 in Italia si parlava di un ritiro, in sessant’anni, di oltre il 30%…
I ghiacciai italiani sono in grandissima sofferenza. Il Monte Rosa è ampio, la superficie al di sopra dei 4000 metri molta, per cui si nota meno, ma anche questo massiccio sta soffrendo. Tutti i ghiacciai delle Alpi orientali italiani sono destinati a una agonia evidente. Come sai, lavoro a Fata Morgana da due anni, e ho fatto diverse ricerche di bacini alimentati da acqua di scioglimento anche in Alto Adige. Ve n’era uno nella valle sopra Vipiteno, bellissimo, dove ci sono foto storiche di mezzo secolo fa in cui il lago non esisteva: il processo è stato così rapido e lampante, ma il prodotto spettacolare.
L’attuale fase del cambiamento climatico ci regala paesaggi nuovi, ed è un tema che vorrei introdurre: paesaggi nuovi che, almeno dal punto di vista artistico, possiamo percepire come una sorta di meraviglia. Effimera, perché siamo consapevoli del motivo della loro comparsa, però è la natura che si attrezza e trova un modo per tirare avanti.
Dicevi che c’è voluto tempo prima di trovare il luogo ideale. Come si è svolta la ricerca?
Fata Morgana doveva nascere sull’acqua – elemento che porta la vita e genera forme di resistenza – derivata dalla scioglimento dei ghiacci. Al principio mi sono rivolto verso il Lago di Indren, quasi a 3000 metri di quota, sempre nella Valle del Lys. Ho fatto un tentativo ma le difficoltà per raggiungerlo, solo con l’elicottero se non si è un buon trekker, avrebbero reso il lavoro e le visite massacranti. Dopodiché ho cercato nella valle di Cervinia, individuando i Laghi delle Cime Bianche, generati dal ritiro del Ventina. E il colpo d’occhio sarebbe stato fantastico perché l’acqua è quasi bianco grigia, col Cervino come fondale. Ho trovato dei contatti, provato a interagire però non c’è stato interesse e mi sono interrotto. Quindi, anche su consiglio, mi sono rivolto in Alto Adige e lì sono arrivato molto vicino alla risoluzione del caso. In seguito a vari sopralluoghi, il Malavalle sembrava possibile.
Il rifiuto continuo non è dovuto a questioni economiche, dato che l’operazione ha costi non solo bassissimi ma ha una copertura da parte di sponsor tecnici…
In Alto Adige soprattutto, dato che una società locale era interessata a prendere in esame il progetto per sostenerne le ulteriori spese. A quel punto ho avuto un piccolo scoramento, perché era passato più di un anno senza risultati, e ho deciso di tornare dalle mie parti, Monte Rosa, valle di Gressoney, dove ho scoperto il laghetto del Col d’Olen, bagnato da un ghiacciaio roccioso, unico nel suo genere. Fare un intervento lì diventava davvero interessante dal punto di vista scientifico.
Andrea Beck Peccoz, il proprietario, mi ha dato la sua disponibilità e si è entusiasmato e prodigato molto; il Comune di Gressoney-La-Trinitè ha apprezzato la proposta, come il Consorzio Gressoney Monte Rosa, mentre l’Università di Torino, che studia il fenomeno, ha collaborato prima e durante la messa in opera. Sono venute fuori anche altre sinergie, con la società padovana Rifuginrete ad esempio, che fornisce la webcam per scattare in streaming una foto ogni 5 minuti e nella notte ogni 10; e grazie a Arpa Valle d’Aosta abbiamoo le riprese col drone. La cosa è diventata importante.
Mi hai parlato della sua genesi, ma il lavoro vero e proprio in cosa consiste?
È composto da tubi in pvc, elementi che l’edilizia usa per realizzare le condutture per l’acqua, le fognature, i cavi elettrici, le comunicazioni, una specie di struttura viaria alveolare di vene e arterie che sta nel sottosuolo delle città ed è necessaria per la nostra sopravvivenza. Ad un certo momento ho pensato che fossero belli e potessero uscire fuori e dire la loro: da qui nascono gli Innesti urbani, nei primi anni 2000. Non li ho più abbandonati ma li ho trasformati: cominciando a interagire con l’acqua ho capito che era interessante deformarli, col calore, modellarli, trovare una forma plastica, quasi antropomorfa, anatomica. Sul lago del Col d’Olen ho usato 33 pezzi smaltati di rosso, di varie lunghezze, dai 5 metri ai 40 cm, la cui altezza è collegata con la profondità dell’alveo. Non è un intervento violento, non impongo la mia idea, ma mi sono messo nella condizione di ascolto, ho studiato il bacino grazie all’Università di Torino e mi sono inserito in maniera esattamente simmetrica.
Se prendiamo come linea di demarcazione la superficie, quanto è sommerso corrisponde a ciò che si vede, e soprattutto corrisponde alla morfologia del suolo…
È il lago stesso che mi dice come devo sistemare l’installazione; io interpreto. E la situazione è di continuo movimento, dove i tubi più lunghi si agitano a contatto col vento e gli agenti atmosferici. Una danza.
Il titolo Fata Morgana da cosa deriva?
È un effetto ottico di illusione, che ho sempre concepito come miraggio di speranza, scorgere qualcosa di positivo laddove non v’è nulla; rappresenta la salvezza. Allora è un miraggio anche il mio canneto artificiale, perché non esiste, ma lo si può immaginare; e l’arte è immaginare ciò che non c’è. Solo successivamente possiamo riflettere se nasce perché è in atto un cambiamento climatico, se è sintetico, fatto di tubi in pvc, perché la violenza dell’uomo sulla natura è tale per cui sorgono piante di plastica. È una nuova forma di vita che si manifesta a causa di un peggioramento, ma se la prendiamo come sorpresa, meraviglia, l’ambiente che è obbligato a andare avanti, allora forse, nell’allarme, possiamo mantenere un animo clemente. Inoltre il lago di Fata Morgana è bagnato dal ghiacciaio roccioso, coperto da una frana che ne conserva lo stato a lungo, e arriva a sciogliersi alla fine dell’estate quando il calore dall’alto è penetrato di roccia in roccia. Quindi, credo, destinato a durare più degli altri perché termicamente isolato.
Hai spesso affermato che fosse un progetto tra arte e scienza, dove la prima si fa carico di divulgare con un linguaggio universale i concetti complessi della seconda…
Marco Giardino e Michele Freppaz, i Professori che stanno eseguendo una campagna di studi sul lago, mi hanno consentito di comprendere le reale importanza del bacino del Col d’Olen e del ghiacciaio roccioso. Poi mi hanno fornito, anche grazie al ricercatore Nicola Colombo, i dati necessari. L’opera parla di Antropocene, clima e acqua, e arrivare a un pubblico non prettamente di intenditori è lo scopo: le persone non conoscono il lago e le particolarità del ghiacciaio. Alla fine ci sarà un catalogo coi loro contributi per approfondire ancor di più.
Quanto si è informati – hai potuto notare dopo un biennio di studio – su queste problematiche?
Penso fino ad un certo punto: chi appartiene al mondo occidentale, una fetta marginale di popolazione, in parte lo sa, ma chi vive al di sotto di soglie di sopravvivenza? Nell’Oceano Pacifico naviga un’isola grande quasi come un continente, un’isola di plastica; le economie in via di sviluppo, Cina, Brasile, India hanno larghi tassi di crescita anche perché sono meno attente all’ecologia. Poi i paesi occidentali, che dovrebbero essere leader, fanno marcia indietro, vedi Trump. Non credo però sia irreversibile, nei millenni il clima sulla terra è cambiato. Ci son leggende medievali che appartengono alla Valle del Lys in cui si racconta di mercanti Walser che facevano commerci con la Svizzera passando per valichi che adesso sono abbondantemente ricoperti dai ghiacciai, quindi è probabile che prima non fossero estesi e loro potessero attraversarli con greggi, carri e merci. Ci sono stati periodi in cui l’umanità non era inquinante come oggi in cui la temperatura era più calda. Il problema è che nei vari secoli non ci sono mai stati cambiamenti così repentini.
Conosci qualcun altro che ha fatto operazioni di cui condividi l’approccio?
L’arte può fare molto e ci sono tanti autori che se ne stanno interessando. Basti guardare quante mostre riportano nel titolo la parola Antropocene. L’ultima è di Piero Gilardi, all’Accademia di Carrara, che lavora da anni sul tema della natura artificiale. In questa fase ciò che viene richiesto è soprattutto correttezza intellettuale: se ti occupi di un argomento del genere fallo perché veramente ci credi, ti interessa, e non perché è diventata una moda. Sono diverse le esperienze di arte ambientale; si può partire dalla Land Art americana degli anni ‘60 e ’70, anche se abbiamo cambiamenti ancora più marcati, per cui va pensato in modo diverso. Lo stesso Penone ha nel dna un’attenzione verso argomenti affini. E ho visto che nelle Alpi già sono state realizzate installazioni in quota, come in Trentino Alto Adige; esperienze di sculture e installazioni nel bosco. Però bisogna stare attenti: molte operazioni sono come design, makeup, moda – ripeto – e dal mio punto di vista non servono. C’è un artista romano, un amico, Angelo Bellobono che porta avanti un lavoro molto serio sulla montagna, sull’ambiente; adesso è concentrato sulla zona terremotata; va da sempre in Marocco unendo lo sport alla creatività; progetti di recupero sociale, coinvolgendo comunità. Esistono casi importanti che possono far scuola.
Cosa ti ha lasciato e cosa hai in programma dopo l’esperienza di Fata Morgana?
Spesso si dice che l’artista lavori perché sente una necessità, perché non potrebbe fare altro, e io sono arrivato ad una convinzione, cioè che è vero, ma non obbligatorio. È meglio esimersi se continuiamo a fare mostre decorative, fini a se stesse, belle a vedersi. Ci vuole sostanza, contenuto; l’artista è principalmente un intellettuale, che si accorge per primo di alcune cose e le esprime nel modo giusto. Questo è secondo me ciò per cui vale la pena. Se penso a come è la mia giornata, che per realizzare Fata Morgana ho operato al sole con 40 gradi, i sacrifici enormi, il periodo in alta quota per montare. Però sono cresciuto io come persona, ed è un atto di amore per quello che faccio.
Naturalmente mi è chiaro il prosieguo, intervenire sulla natura, sul tema della natura e del cambiamento climatico, della natura che cambia, e della natura che è una meraviglia. Ho già in mente dei progetti, che cercherò di portare avanti.
Fata Morgana | Dentro l’Antropocene di Alberto Timossi – l’installazione ambientale presso il lago del Col d’Olen, alta Valle del Lys, Gressoney-La-Trinité, Valle d’Aosta – è visibile fino al al 27 agosto 2017 ed è raggiungibile in venti minuti a piedi dall’arrivo della funivia dei Salati (percorso Staffal-Gabiet e Gabiet-Passo dei Salati).
Ph. Stefano Esposito – Courtesy Takeawaygallery e l’artista