Di Carlotta Monteverde
«Sono una figura ibrida, che viene dal mondo dell’urbanistica. Mi sento fortemente progettista ma ho scoperto che di costruire non mi interessa. Mi interessa il negativo della città, il vuoto, la percezione dello spazio condiviso, che ho imparato a esplorare attraverso la pianificazione. La disciplina da cui provengo chiama a un senso di responsabilità operativa molto alto, insegna a misurare oggi quali effetti un’azione avrà nel futuro. E questo aiuta a considerare anche l’atto creativo come riverberante».
Architetto, scenografa, artista, trent’anni a cavallo tra piani e progetti dalla forte vocazione pubblica; un approccio votato alla partecipazione e contestualità, alla misura. Livia Cannella è stata da poco relatrice al convegno RO.ME. Museum Exhibition nella sezione Best practices della comunicazione e dell’heritage intepretation e vincitrice della call for papers del Maxxi Città come cultura, di prossima uscita, portando la propria esperienza per illustrare il tema Città e musei forme e dinamiche di senso e relazione. Ovvero: i suoi sforzi, ultimamente, sono tutti indirizzati ad accelerare il dibattito su patrimonio, lavoro e divulgazione. E a mettere dei punti nella sua carriera, alla luce della pervasività dei media digitali nei beni culturali, strumenti da lei abbracciati fin dagli anni ’90.

Comincerei dal concetto di spazio, che è l’elemento che accomuna le tue tre anime. I criteri utilizzati a scala urbana sono travasati nella ricerca personale; e ancora adesso, dopo mostre e interventi slegati da finalità sceniche/celebrative/educative, il luogo per eccellenza dove preferisci muoverti è quello della collettività.
Ogni spazio ha la sua gamma di azioni compatibili. Abbastanza giovane e inesperta sono stata catapultata a disegnare il Comune di Fiumicino: da 13simo Municipio, squalificata periferia romana, a nuova “centralità”, con una propria identità di Comune autonomo. Cosa mi porto della progettazione nell’arte: la capacità di cambiare scala, adeguare l’attività alle peculiarità della situazione. Anche nel campo creativo vedo il lavoro come un servizio al cittadino, non un’autoaffermazione. L’opera si manifesta corrispondendomi, però deve collocarsi in un’appropriatezza visuale appartenente a tutti. Mi interessa la dimensione che associo all’idea di spazio pubblico; e evito di invadere punti in cui potrei non essere opportuna.

Hai scelto la luce come mezzo elettivo, nella scenografia, nella divulgazione, nella ricerca. Quali sono stati gli step che ti hanno guidato fin lì?
Da ragazzina avevo un estro spiccato, ma le vicende della vita mi hanno portato altrove. Ciò che mi ha ricondotto verso la cultura dell’immagine è stata la fotografia, tra i 17 e i 18 anni. Stampavo in diapositiva e a un certo punto mi sono accorta che dentro la trasparenza della pellicola poteva passarvi di tutto, non solo la realtà catturata all’esterno. Sono quelle rivoluzioni banali che ti aprono un mondo. Ho speso un lungo periodo a sperimentare sul colore astratto, a inventarmi fusioni alchemiche tossicissime; da lì mi sono interessata alla dimensione spaziale. Dopo un piccolo precedente in Via della Scala, ho portato all’Extra un insieme di teli, tulle, lane, metallo e sono riuscita a realizzare quella che chiamo luce-massa. Con due punti di proiezioni la galleria diventava una nuvola in cui inabissarsi: ho pensato immediatamente all’esperienza entro una dimensione contemplativa. E non ho mai considerato questa roba con una identità artistica… Passo che comincio a fare adesso quando vedo gli ambienti immersivi, gli stessi che io facevo 20 anni fa. Allora: o non hanno mai avuto valore, oppure ho bisogno di recuperare il valore dei miei.
Mi hai detto che all’Extra siamo nel ‘99. È singolare, perché tu non solo già avevi iniziato a lavorare col teatro ma è proprio da lì che successivamente svilupperai il linguaggio che ti appartiene.
Mentre studiavo ho conosciuto una serie di operatori e mi si è schiuso un universo di espressività a fior di pelle con una empatia e emotività che cercavo da tempo. La scena è diventata il luogo elettivo dove il materiale che producevo poteva avere un ruolo legittimo. Nel ‘93/4 ho cominciato a fare le prime cose, con gli amici, pur continuando a esercitare come architetto. Era un divertimento collaterale. Poi c’è stato l’incontro con il teatro di Ruggero Cappuccio, folgorante; anche lui lavorava con le proiezioni. Nonostante la timidezza gli ho sottoposto le mie diapositive. È stato un innesco immediato. Questo accadeva alla fine del ’97… due settimane dopo firmavo un contratto col Teatro di Roma, nel periodo di direzione di Luca Ronconi.

Parliamo di due rappresentazioni per il Teatro dell’Angelo: il Tieste e le Bacchidi, di Cappuccio – con cui collaborerai in totale quattro volte, per poi proseguire con altri registi. Le intuizioni che finora avevi seguito si strutturano e la capacità narrativa si affina. Compaiono le prime figure e metti a punto la tua tecnica attuale. Mi puoi raccontare i passaggi?
A me era già tutto chiaro ma non ancora esplicito, e lui mi ha aiutato a affinare metodologia e concetti. Ho realizzato l’apparato visivo delle scenografie e cominciato subito a lavorare inserendo l’immagine come compendio emotivo di uno spazio, secondo l’idea di apparizione, non di proiezione. Forme scontornate, emblemi.
È sempre complesso trovare un equilibrio tra diversi tipi di linguaggio. Il rischio è che si sovrappongano creando confusione.
Ciò che mi appassiona è andare alla ricerca, nel figurativo, dell’elemento semantico, quello che fa vibrare di senso un racconto. E non deve invadere l’altro campo espressivo. Lo spazio teatrale vive in un equilibrio fragilissimo e la videoproiezione è un linguaggio seducente e a forte rischio di invasività perché la percezione va dove l’immagine si muove. È fondamentale quindi sapere con precisione cosa si sta dicendo, ricercare, concordare qual è la cifra, il rumore di fondo, l’impronta; solo dopo si compone. E bisogna misurarsi opportunamente: io per esempio uso le penombre, mai lo scatto greve. È l’estrema semplicità che vince.

Grazie al teatro ti accosti alle multiproiezioni. Poi la committenza cambia; il pubblico non è ancora composto da un’utenza casuale; si tratta sempre di invitati, paganti. Però da lì alla collettività il passo è breve. E il meccanismo affine.
Il teatro mi ha avvicinato al figurativo, raffinando un certo immaginario legato alla storia. Quando lavoro con lo spazio pubblico, che responsabilità mi prendo davanti a una posizione così privilegiata? Di comunicazione con chi non mi ha scelto, quindi devo parlare in un linguaggio coinvolgente, evitando il campo della provocazione e i personalismi stilistici. Quando sono nella casa di tutti quello che dico e come lo dico deve innescare qualcosa di positivo e la conoscenza dei patrimoni culturali è una delle chiavi più garantiste, divulgative e interessanti. Poi ogni volta si può adeguare alle specificità.
Anche nell’evento privato, di marketing, si possono fare operazioni culturali. Come a Villa Medici nel ’98: Cartier, il gioiello, Monica Bellucci testimonial. Ho scandagliato tutto ciò che attraverso la pittura esprimesse il senso del femminile.
Il battesimo con la grande dimensione lo hai avuto a Palazzo Altemps, tre mesi prima di Villa Medici.
Palazzo Altemps è il primo saggio nelle proiezioni di scala monumentale. Collaboravo a quel tempo con l’amica Stefania Vecchione, che stava realizzando un allestimento nella corte interna. Per l’opera La Contesa de’ Numi – concomitante con l’inaugurazione del museo – il regista Stefano Vizioli aveva pensato di mescolare dei colori alle immagini delle sculture esposte dentro, e di proiettarle su un palcoscenico di tulle che solo alla fine dello spettacolo doveva crollare, scoprendo con un colpo di teatro tutta la loggia. Questa esperienza mi ha spalancato un mondo nuovo.

A seguire: continui con Cappuccio; arrivano l’Extra, Piazza di Siena – un episodio indoor, legato al cinema – e Orvieto con i fondali scenici per una masterclass di Stefano Vizioli. Poi il Gatto con gli Stivali di Giancarlo Nanni, al Vascello, nel ‘99. Con Villa Adriana, nel ’99 e nel 2002, c’è la svolta.
Sì. Nel 2002 vengo coinvolta in occasione de Le Memorie di Adriano di Giorgio Albertazzi, allestito nei pressi del Canopo. Ho immaginato, insieme a Maurizio Giammusso, di accompagnare l’ingresso del pubblico per condurlo, senza segnaletica e con un susseguirsi di figure, verso lo spettacolo finale. Il concetto era quello di disseminare il percorso di custodi. I due personaggi scelti, Adriano e Antinoo, si osservavano in un rapporto di reciprocità che culminava nella rappresentazione finale. Non c’era dichiarazione, ma sottinteso. Non mi piace bulimizzare di informazioni; mi prendo la responsabilità di essere grandiosa nell’innesco ma lascio al visitatore la scelta di approfondire. Un intervento che è, per fortuna, destinato a sparire, lo si può proseguire su altre piattaforme di conoscenza, ma è nella memoria di chi lo ha vissuto che conserva la sua essenza, dipingendone nel tempo un’attualizzazione.
Villa Adriana è stata finanziata da Civita. Sono anni, quelli, in cui c’è un notevole impegno, sul piano culturale, da parte di grandi aziende. Il Comune anche investe molto sull’immagine di Roma. I primi 2000 segnano un momento positivo per la città.
Nel passaggio tra Rutelli e Veltroni lavoravo ancora al Piano Regolatore, nello specifico sul tema delle centralità locali, uno strumento indicativo, non prescrittivo, che proponeva di riconoscere all’interno dei Municipi aree con dinamiche strutturate e strutturabili per assumere identità di “luogo centrale”. Spazi in cui la collettività poteva trovare degli elementi di riconoscibilità, condivisione. Purtroppo è mancata la forza di dare, oltre alla destinazione urbanistica, una funzione vera e propria a questo strumento. Per il Piano Territoriale della Provincia di Roma, invece, mi sono occupata più direttamente di temi culturali, andando a fare una lettura vocazionale dei luoghi a seconda delle specifiche attività che già vi si svolgevano, considerando l’uso effettivo del pubblico. Si investiva su una rigenerazione attraverso progettualità e opere. Motivo per cui oggi guardo alla street art, intesa da molti come forma di rigenerazione, con sospetto.

Nonostante alcuni esempi di muralismo dove molto si è fatto sul piano del coinvolgimento, non si devono confondere con manovre di recupero di spazi, immobili, creazione di servizi?
La questione è come vengono comunicati. I festival, le visite guidate, il coinvolgimento di interi quartieri, anche con risultati discutibili, non possono rappresentarsi come rigenerazione urbana. Quanta gente definisce ogni decorazione murale come atto di cultura cittadina perché fatto con la partecipazione? Oggi c’è un deficit di efficacia operativa, vuoi perché ci sono pochi soldi, vuoi perché ci sono poche teste; c’è scarsa azione coordinata sul territorio e si finisce per trasferire grossolanamente il tema della riqualificazione a qualche iniziativa di tipo creativo. I murales hanno un grado di utilità preziosissima, coesiva, ma non migliorano l’inefficienza dello spazio, la mobilità e la connessione organica di tutti gli aspetti che insieme dovrebbero fare una città migliore. L’amministrazione, che ha facoltà di agire responsabilmente nel proprio ambito, potrebbe essere più incisiva.
La progettualità sostituita dall’eventismo…
La trasformazione, anche la migliore, è un’azione traumatica. Come la veicoli alla cittadinanza? Anticipandogliela. Con l’iniziativa giusta, al momento giusto, nel posto giusto. Vedo molti interventi sullo spazio pubblico privi di sensibilità e stratificazioni necessarie, finendo per incidere sull’immaginario in modo totalmente sbagliato.
Io continuo a incarnare un ruolo responsabile dell’essere operatore, che parla agli abitanti tutti. Non ci si può permettere la parzialità, perché l’esperienza resta nelle corde delle persone, che potrebbero rinunciare a riconoscere cosa è valido da cosa non lo è.

Tra l’altro, c’è un uso sconsiderato di parole come partecipazione.
Tutti temi pronunciatissimi ma assai poco praticati: sostenibilità, fattibilità, partecipazione. Intorno a dei concetti così fondamentali per la cosa pubblica, il primo passo da fare è capirsi sul lessico, liberandolo da una concezione eccessivamente accademica, spesso legata a una forma di trasmissione della conoscenza chiusa in una teoria poco valida sul piano pratico. Va ricostruita una grammatica, rimessa in rete e consegnata ai professionisti che, nella sfera creativa e progettuale, sono in grado di poter lavorare in termini site specific, senza nulle togliere al mondo dell’impresa che tuttavia tende, per propria natura e missione, a serializzare in forma di “produzione”. E poi ci vogliono regie competenti, amministrazioni illuminate in grado di stabilire le geografie delle azioni.
Ritornando alla tua carriera: hai partecipato a più edizioni delle Notti Bianche. Qual è la differenza tra una operazione del genere e quanto succede oggi?
Intanto c’erano i soldi, che è una variabile fondamentale per riuscire bene, ma soprattutto c’era un investimento sulla cultura gigantesco. La Notte Bianca, format portato dalla Francia, è poi diventato un contenitore bulimico, ma le prime volte è stato dirompente. Consentiva di pensare e progettare in prospettiva futura, anno dopo anno. C’erano occasioni, una buona sinergia con gli uffici e l’immagine pubblica della città aveva un valore alto. Ora resta la Notte dei Musei e, nel passaggio, piccole notti bianche tematiche: è una situazione molto immiserita per una capitale, in uno Stato che ha 54 siti Unesco.

Cosa hai realizzato per la prima Notte Bianca?
Per Luci e Immagini a Villa Borghese l’idea era di portare a spasso nella villa le opere della Galleria Borghese. Da via Pinciana, per tutta la strada superiore, passando per l’Aranciera, l’Uccelliera, fino al Giardino Zoologico. Mentre a Villa Adriana la proiezione era stata costruita a supporto dello spettacolo di Albertazzi, senza competere con l’importante evento, a Villa Borghese l’identità risiedeva proprio nel mio progetto, sulla base del quale sono stata mobilitata anche per Fontana di Trevi.
Procedendo con ordine cronologico e menzionando solo i lavori più imponenti: nel 2003 c’è il Palazzo della Civiltà Romana con all’Ombra del Colosseo. Segue, nel 2005, la tua seconda Notte Bianca: l’opera si chiama Stupori in Corso ed è in Corso Vittorio Emanuele. Nel 2006 sei a Castel Sant’Angelo per l’Estate Romana a supporto della Città delle donne, sul femminile nell’arte. Il 2007 è particolarmente impegnativo.
Per la Notte Bianca 2007 ho colorato il Palazzo delle Poste, prima dei mapping, quando il tracciato – che oggi è la mappatura laser – si faceva a mano, ridisegnando i prospetti. Volevo mettergli il vestito della festa. È stata composta per l’occasione una partitura musicale, con 3 minuti di intro e uno svolgimento di mezz’ora: prima si accendeva la torretta con l’orologio; poi, da bagliori dai toni ambra, si cominciava a manifestare sulla facciata una combinazione progressiva di luce, una sorta di travaglio. A un certo punto la luce divenuta accecante decadeva, lasciando emergere i colori. L’intro ci è talmente piaciuta che abbiamo deciso di replicarla ogni ora. Piazza San Silvestro era un luogo di compensazione, tra via del Corso e via del Tritone, in cui si creava una specie di galleggiamento, di stasi, con suoni micrometrici. Cos’è che ne ha impreziosito la fruizione? La compostezza, non rumorosa. Non amo l’animazione, non chiamo la collettività a guardare inerte una narrazione da me confezionata. Per questo ci sono i posti deputati, come il cinema. Nell’ambiente in cui ci si muove, si transita, è più interessante la dimensione di accorgimento che la proiezione combinata con lo spazio può provocare.

Le coloriture le hai usate per poco tempo…
L’unica volta ancora è stata per i 140 anni di Roma Capitale, dove erano in programma 3 eventi in via XX Settembre. Gli altri hanno lavorato con il racconto animato, i colori, le capitolazioni. Io non riesco ad essere celebrativa. Ho preso il rosso e il giallo e sul Ministero dell’Agricoltura ho aperto un sipario, fisso, con un punto di proiezione, definendo una sorta di portale, e “disegnando” l’interno come se lo avesse fatto un ragazzino. L’ho chiamato Falpalà. Poi ho gelatinato tutti i candelabri presenti sulla facciata del palazzo sempre di giallo e di rosso. Per un evento atipico come la celebrazione dei 140 anni di Roma (che ci si aspetterebbe per i 150) ho preferito giocare.
Volevo soffermarmi su Santa Maria sopra Minerva. Siamo al Concerto di Natale 2007.
Di Ennio Morricone; concerto del Fondo Edifici di Culto (Ministero dell’Interno) che tutti gli anni si svolge per i richiedenti asilo. Capienza: quella della chiesa; gli spettatori sono liberi ma limitati nel numero. L’abbiamo trasformato in un evento accessibile amplificando la musica all’esterno e portando in facciata i dettagli delle opere custodite all’interno. Naturalmente chi passava chiedeva: Ma cosa sono queste sculture? Questi dipinti? Devo tornare a vederli! Divulgazione, funzione pubblica, eccoli qua.

Saltando… Uno dei progetti che più ho apprezzato, visto poi per caso su internet, è stato quello di Nerone. Come nasce? Quando?
È il 2011; ho collocato per sei mesi sulla facciata della Curia Julia una sua immagine – che variava ogni tre giorni – per segnalare la mostra coeva. Al calar del sole compariva Nerone, immobile, e questo lasciava a chiunque dei passanti – interessati, distratti, curiosi ma anche inerti – il modo di trovare il proprio tempo di fruizione. Il mio scopo era esortare la singolarità percettiva di ciascuno, valorizzando nel contempo lo scenario circostante. Tutta la via che ho intrapreso punta a far emergere luoghi simbolici e a parteciparli alla vita collettiva.
Altro monumento mai veramente valorizzato, se non in questi giorni con l’apertura del nuovo spazio Fendi, è l’Arco di Giano, per il quale hai vinto un bando del Comune nel 2015.
L’evento è stato anticipato da un sito web, dove abbiamo introdotto il signor Arco di Giano, che non tutti conoscono, da angolazioni inconsuete, insieme alla demo dell’intervento; poi si sono aggiunti il racconto dell’allestimento e tutte le immagini con le didascalie, i link ai musei proprietari e ad altri canali informativi. Popvlvs… genti dell’età classica, così si chiamava, è stato di fatto presentato dalla società che lo ha prodotto, in quanto la complessità procedurale e i vincoli normativi non consentono ad un libero professionista la titolarità di un incarico, né le connesse responsabilità di impresa che gravano sul proponente. E’ questo un tema controverso che sto portando fortemente all’attenzione degli ambiti preposti e competenti, perché rischia di minacciare la qualità dei progetti culturali a vantaggio di un sistema spesso più incline all’applicazione tecnologica e alla logica di mercato che al contenuto.

Parli di visite multimediali? Di ambienti immerisivi, tipo i vari “artisti experience”?
Gli ultimi, in particolare, rischiano di dissipare l’immagine dell’opera reale. Non dimentichiamo che stiamo muovendoci verso generazioni di nativi digitali, sempre meno rivolti all’esperienza frontale, a cui la virtualità potrebbe risultare sufficiente. E noi giocarci l’unica esclusività che abbiamo al mondo, i luoghi veri. Vogliamo fare gli ambienti immersivi? Facciamoli con materiale autografo, nuovo, non toccando i capolavori.
Poi, le tecnologie: la sensoristica, i device, la realtà aumentata, virtuale. Lo sviluppo semantico potrà anche evolversi, ma sono dell’idea che se ho il Colosseo devo guardare lui, la sua impronta archeologica attuale a contatto coi miei sensi, perché lo posso fare solo là. L’“Oculus experience” mi ha disorientato: è una percezione fuorviante, non hai piedi, il tuo corpo scompare, sei occhi, sguardo, è un condizionamento decontestualizzante. Diventa un gioco di effetti grafici, che distanzia dall’appartenere fisicamente a un luogo.
Palazzo Valentini è stato il primo ma molti stanno sviluppando programmi simili…
Il problema di Palazzo Valentini è l’impossibilità di osservarlo in originale, senza la ricostruzione virtuale. Questo riguarda anche il Foro di Augusto dove, nelle notti d’estate, l’evento multimediale che da anni raduna un pubblico pagante interrompe l’omogeneità del paesaggio archeologico, essendo vincolato – come il Foro di Cesare – alle necessità di oscuramento per consentire la visibilità dell’installazione. Credo che ciò generi una disparità riguardo alla collettività, il cui diritto alla fruizione dello spazio pubblico viene marginalizzato a vantaggio di un’offerta culturale a pagamento.

E si farà sempre, una volta superata la soglia…
Altra soglia superata, a mio giudizio, è la proiezione su San Pietro, all’inizio dell’ultimo Giubileo. La Basilica ha una funzione e una sacralità intoccabili, anche per un tema altissimo come la salvaguardia del pianeta; nella sua solenne unicità, sovrapporvi dell’altro genera un conflitto identitario che rimane nella cospicua documentazione fotografica prodotta e diffusa in ogni dove. Lo stesso vale per i luoghi di culto, dove spesso si gioca con mapping di ispirazione algoritmica e relativi effetti speciali, in cui nulla richiama a un lessico idoneo. Qui la domanda andrebbe posta a chi consente tali operazioni. Non è una critica, ma capire a quale tipo di visione si collega il fenomeno, aiuterebbe perfino a collocare l’apparente deriva tecnologica i cui contenuti sembrano il più delle volte scollegati dall’opportunità dello spazio pubblico.
Come aumentare le visite, le vendite, senza scadere? Da un lato si seguono trend che si suppone soddisfino le richieste del pubblico; dall’altro ci si affida a terzi, formati su marketing, comunicazione, meno sul piano culturale. Che comunque non è il focus per cui sono stati consultati.
Io non soffro la musealità convenzionale come qualcosa di datato. Le attività che ne implementano l’offerta, che poi sono quelle cui è stata demandata la possibilità di far crescere i fatturati, perché non metterle in continuità con le collezioni? L’intento dovrebbe essere di accrescere il senso di ciò che è conservato. Nel 2008, in occasione della mostra Ricordi dell’Antico, ho proiettato sulla facciata di Palazzo dei Conservatori in Campidoglio le riproduzioni di scultura classica esposte, utilizzando l’edificio come un grande mobile d’epoca e le opere come fossero statuine. Ho arricchito, amplificandolo, il senso dell’evento. Altro esempio: Nerone. L’immagine era un pretesto per comprendere lo spazio, un acceleratore di conoscenza.

L’Arco di Giano anche: serviva a scoprire la statuaria dei musei di Roma…
L’Arco di Giano è situato sul margine dei Fori Imperiali, un parco archeologico non confinato. Ne è la porta dal Foro Boario, che oltre il Velabro dà accesso al Palatino e poi al Foro Romano. È importante metterlo in luce, conservandone però mistero e segretezza, senza accenderlo come un diamante. Io l’ho fatto appunto con le immagini del patrimonio scultoreo dei musei romani, promuovendone la diffusione.
Non sempre mi sembra di cogliere, negli interventi sullo spazio pubblico monumentale, una attenzione alla loro mission diretta, che è quella di sviluppare luoghi e patrimoni. Ogni anello del sistema culturale – responsabilità gestionale, amministrativa, curatoriale – dovrebbe garantire e promuovere la valorizzazione e la divulgazione.
Lo stesso riguarda il campo del contemporaneo?
La confusione lessicale, la contaminazione, la collettività spezzettata, conflittuale, in cui è vero tutto e il contrario di tutto e non ci sono più limiti riconosciuti; dove non ci si identifica in convenzioni, non c’è un punto di riferimento neutro, un vocabolario condiviso, sta aprendo lo spazio ad operazioni che assomigliano molto alla casualità e alla gratuità del proviamoci. Non vi vedo alle fondamenta una valida idea da perseguire, l’obiettivo: piuttosto un trovarsi dentro un ruolo, magari scompaginando se non c’è chiarezza di indirizzo.
È un tempo narcisistico: ci si basa sul chi, non sul cosa o come. La missione passa in secondo piano e il discorso si sposta sulla persona che ricopre la mansione. Il focus migra anche dalla qualità del lavoro alla quantità di comunicazione che si produce. Non essendoci poi più un senso critico comune, che fissa l’esperienza nel tempo, tutto tende ad esaurirsi nel presente. Non c’è un commento postumo nella produzione culturale. Si provvede ai lanci, ma il resto è scomparso. Non capisco più se lo scopo sia avere il migliore programma o la migliore partita di marketing. Il che fa temere per la conservazione di senso del fare buona progettazione.

Qui ritorniamo al il tuo impegno: stai investendo grandi energie nell’alimentare la diffusione dei temi in questione, dal cambio di domanda e offerta nella produzione culturale, al ruolo delle singole professioni. Cioè ripartire dalle nozioni base per virare su direzioni di compromesso.
La mia linea di riflessione tende a essere plurale, non onanistica, in un confronto che sta sparendo. Ho vissuto tanti cambiamenti e non voglio competere con il nuovo: piuttosto lo devo sostenere e affiancare, facendomi traghetto di una mentalità. Il problema è che il dibattito culturale è fortemente sbilanciato sulla produzione di denaro, e sulle soluzioni che lo incrementino. Questo sta attualmente agevolando soggetti afferenti alle competenze tecnologie, a scapito delle professionalità, le cui abilità progettuali finiscono per rimanere inespresse ed emarginate. La produzione culturale è ormai quasi esclusivamente centralizzata intorno a bandi pubblici, con una spiccata impronta imprenditoriale. E’ necessario portare l’attenzione su queste gravi e macroscopiche trasformazioni che stanno avvenendo senza livelli di opportuna analisi e valutazione, in una interruzione di flusso comunicativo che va quanto prima ripristinato.

Didascalie complete
Immagine di copertina e n. 11: Mostra Nerone | Ideazione, progetto e realizzazione: Livia Cannella; Promossa da: Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma; Produzione: ELECTA Mondadori | Roma , Foro Romano – Curia Julia, 2011
1- Roma, città olimpica per sempre, celebrazioni per il cinquantenario delle Olimpiadi di Roma 1960 | Progetto e realizzazione: Livia Cannella; Organizzazione: AlphaOmega s.r.l. | Roma, Colosseo, 2010
2- Riflessi, Materia in Luce | Progetto di Livia Cannella con Stefania Vecchione; Selezione musicale Paolo Casali | Roma, Art Café Extra, 1999
3-Lush Life. Amii Stewart canta Duke Ellington | Proiezioni scenografiche: Livia Cannella | Roma, Auditorium Parco della Musica, 2010
4- La Contesa de’ Numi, cantata di Pietro Metastasio su musica di Leonardo Vinci | Concerto diretto da Rinaldo Alessandrini; Progetto scenico e regia luci: Stefano Vizioli; Collaborazione: Stefania Vecchione; Proiezioni: Livia Cannella e Artsound | Roma, Palazzo Altemps, 1998
5- Adriano e Antinoo, Apparizioni nella notte di Villa Adriana | A cura di Maurizio Giammusso; Realizzazione di Livia Cannella; allestimento parallello allo spettacolo Animula Vagula Blandula con Giorgio Albertazzi per la Regia di Maurizio Scaparro | Tivoli, Villa Adriana, 2002
6- La Dolce Vita. Notte Bianca 2003 | Progetto Livia Cannella | Roma, Fontana di Trevi, 27 settembre 2003
7- All’ombra Del Colosseo. Estate Romana 2003 | Progetto Livia Cannella | Roma, Palazzo della Civiltà Romana, 2003
8- Stupori in Corso. Notte Bianca 2005 | Progetto e realizzazione: Livia Cannella, con Maurizio Anastasi; Adattamento musiche: David Monacchi; Collaborazione: Stefania Vecchione, Damiano Mari; Coordinamento tecnico: Stefano Lattanzio | Roma, Corso Vittorio Emanuele, 2005
9- Poste-R. Notte Bianca 2007 | Progetto: Livia Cannella; Musiche Originali: David Monacchi; Luci e Coordinamento tecnico: Stefano Lattanzio; Collaborazione: Paola Di Pietrantonio, Fabrizio Latini | Roma, Piazza San Silvestro, 2007
10- Concerto di Natale diretto da Ennio Morricone | Progetto e realizzazione dell’installazione scenografica: Livia Cannella; Direzione tecnica: Stefano Lattanzio | Roma, Basilica di Santa Maria Sopra Minerva, 2007
12 e 15- Popvlvs… genti dell’età classica all’Arco di Giano | Ideazione e realizzazione: Livia Cannella; Produzione: Stelart srl | Roma, Arco di Giano, 2015
13- Immagini dell’Antico, in occasione della Mostra Ricordi dell’Antico e della Settimana della Cultura 2008 | Ideazione, progetto e realizzazione: Livia Cannella | Roma, Piazza del Campidoglio, Palazzo dei Conservatori, 2008
14- Antiche Presenze. Notte dei Musei 2010 | Ideazione, progetto e realizzazione: Livia Cannella | Roma, Mercati Traianei, 2010