Vorrei capire chi è Melker Garay. Come sei approdato alla scrittura?
«Sono nato nel 1966 in Cile. Nel 1970 mi sono trasferito in Svezia. Ho conseguito due lauree in studi umanistici e sociali. Ho lavorato tra l’altro al Ministero delle Finanze. Verso la metà degli anni novanta ho dato vita ad una società che, via rete, vendeva prodotti elettronici. Subito dopo ho avuto l’idea di fondare una nuova società per incontri sentimentali online, logicamente molto seria. Per farla breve, alla fine ho ceduto tutto a un colosso americano, e questo mi ha garantito l’indipendenza economica: è da allora che ho potuto dedicarmi a ciò che amo di più, la letteratura. L’avventura come pittore è cominciata seriamente solo di recente, nel 2013, mentre a inizio 2017 ho fondato un giornale culturale online, Opulens, e anche una casa editrice.
È difficile spiegare cosa mi abbia portato a diventare scrittore; la risposta è troppo complessa per essere affrontata qui. Mi basti dire che sono una persona curiosa, fin da ragazzo interessato a problematiche filosofiche ed esistenziali, ad argomenti come Dio e l’universo, chi ero veramente, da dove venivo e dove andavo. Ma tutte queste domande non sono sufficienti; c’è la necessità di una grande applicazione e forza di volontà, disciplina e solitudine. E logicamente di un uso appropriato della lingua e l’acquisizione di uno stile preciso. Cosa veramente ha fatto di me uno scrittore? Non lo so, forse il senso di vuoto esistenziale che mi porto dentro. Un vuoto che cerco di riempire di significato grazie al processo creativo».
Il tuo primo libro è del 2008, The Verger (Il Sagrestano), un romanzo che già affronta molte delle questioni che non abbandonerai più, teologiche ed esistenziali. Josepf Kinski and Death, del 2009, tratta invece il tema della morte e per entrambi usi un registro ironico. Argomenti analoghi compaiono in The Dialogue, del 2011, e nell’ultimo lavoro uscito, A twinkling night sky (2016). Come si è evoluto, nel tempo, il modo di guardare al mistero della vita?
«Nel corso degli anni ho capito che ciò che è essenziale per me come scrittore è il porre agnosticamente degli interrogativi. Affermare la presenza di Dio, ritenere di sapere quale sia il motivo del nostro essere qui, le leggi dell’universo, la nascita e la morte… insomma, chi può dire quale sia la verità? Anche il concetto di “Verità” mi sembra difficile da proporre in maniera assoluta. Sono domande alle quali è possibile rispondere soltanto con un atto di fede, che per propria natura rimane limitato. Nessun essere umano può, a mio giudizio, avere una risposta valida per tutti; pensarlo è qualcosa di scandaloso e ipocrita che crea violenza contro la ragione e i nostri sentimenti. Ho un grande rispetto per coloro che credono in Dio e anche per coloro che scelgono l’ateismo. Basta soltanto che non si mescolino fede e sapere, che sono due cose separate, altrimenti si verrebbero a creare assolutismi che, ed è la storia a insegnarcelo, hanno causato e causano enormi catastrofi».
MCV è stato definito una forma di arte concettuale. Come nasce questo testo?
«Considerare MCV unicamente come libro è un errore se pensiamo che consiste nella ripetizione delle consonanti M, C e V pagina dopo pagina. È un lavoro letterario e artistico allo stesso tempo, dove è incerto il confine tra l’uno e l’altro: il significato di opera d’arte è qualcosa di dinamico che propone continui interrogativi sulla forma, sul contenuto e sulla materia. MCV si ispira a un’idea dello scrittore argentino Jorge Luis Borges presente in La Biblioteca di Babele, dove si narra appunto di un misterioso volume, MCV, che si trova negli scaffali di una immaginaria e interminabile biblioteca. Secondo Borges tutto il sapere si racchiude in quelle tre lettere che si ripetono all’infinito. Quando lessi il racconto decisi di trasformare un’opera di “fiction” in un oggetto reale. Forse perchè Borges è tra i miei autori preferiti, tuttavia ho altre spiegazioni: cos’è veramente letteratura? La reiterazione incessante degli stessi elementi non è paragonabile alla società di massa dove la produzione in serie di articoli inutili è legge di mercato nonostante rischiamo una catastrofe ecologica? Infine l’istruzione, l’educazione mostruosamente pervertita in rapido consumo. Allora MCV può essere consumato allo stesso modo di un Dante o di uno Shakespeare. Altre possibili risposte si trovano consultando il mio saggio su mcv».
Stanno per essere pubblicati in Italia Lo Spaventapasseri – Racconti crepuscolari e Il Ratto e altri racconti crudeli. Se nel primo vengono sviscerate le miserie, le paure, e l’incolmabile vuoto della vita, il secondo è un incubo di odio e sadismo che permea persone animali piante e cose. L’uomo è destinato a soccombere alla propria malattia mentale? In alcune opere visive, invece, parli della necessità di una protesta contro il buio, un messaggio tutt’altro che catastrofico…
«Ho sempre guardato con sospetto alle persone che mostrano senza riserve il loro positivo giudizio sull’essere umano. Diffido del misantropo, come diffido dell’utopista, così come delle distopie, del libero arbitrio, del determinismo. Diffido finanche di tutto ciò che leggiamo e vediamo nei libri. Penso che diffidare significhi considerare la storia una cosa seria e quindi non dimenticare le stragi perpetuate nel passato.
I primi due libri, sul buio e le tenebre, sono stati un passaggio importante e li scrissi soprattutto per me. Volevo comprendere la vulnerabilità esistenziale dell’uomo. Il buio è qualcosa di inevitabile, qualcosa da capire per poter andare avanti. Come genitore devo aver fiducia nel futuro, ma lo faccio meglio se prendo in considerazione la debolezza, perchè è questa a porre condizioni alle nostre vite. Solo dopo si può costruire il proprio credo nel mondo. Per esempio: come si comporta un ultranazionalista? Prima come tenebroso tiranno, poi come boia senza scrupoli. C’è un istinto distruttivo nelle persone, non dobbiamo dimenticarlo. Abbiamo speranza? Sì. Per questo è importante protestare contro le intolleranze, contro le meschine stupidità, vale a dire contro tutto ciò che ci umilia ed umilia il nostro prossimo. Sarebbe folle non avere speranza».
I tuoi testi sono caratterizzati da un’estrema velocità, una concisione nell’incedere che sfronda i concetti dalle parole in più e arriva dritto al dunque. Hai anche realizzato una raccolta di aforismi. Sembra il procedere di un fisico: sondare la complessità delle cose alla ricerca della formula riassuntiva. Puoi spiegare come affronti la scrittura?
«No, non sono veloce, ma è vero che sono conciso, rapido nel giungere al cuore della questione. Le novelle delle mie due raccolte sono corte, anche se il lavoro dietro è stato lungo e laborioso. Ognuna l’ho scritta e riscritta almeno cento volte. Bisogna trovare il ritmo, i termini precisi e la conclusione del racconto, che deve essere efficace. E alla base c’è disciplina e una forte volontà di comunicare ciò che è necessario.
Ancora una volta non so rispondere se mi si chiede da dove vengano queste storie. È un mistero, come qualcosa che mi aspetti, che voglia essere destato, scoperto. Quando ci arrivo annoto rapidamente l’intuizione centrale, poi viene la grande fatica di vestire le idee di parole, di rimaneggiarle, di giocare a girare e rigirare espressioni e frasi, per trovare un linguaggio e un finale puntuali. Quando tutto è finito attendo mesi, leggendo il manoscritto più volte. Non di rado mi capita di rielaborarlo ancora. Scrivere non è qualcosa di piacevole, ma bisogna provare il piacere del testo anche quando si lascia scivolare la penna sulla pagina bianca».
Kinski and Death è divenuto uno spettacolo teatrale, adattato e diretto da Kristofer Nilsson Ahlberg e andato in scena nella primavera 2016. Mentre da alcuni racconti di Il Ratto sono stati tratti dei corti d’animazione. Puoi raccontarci l’esperienza della trasposizione in un altro medium? Hanno anche partecipato a dei festival?
«Uno di questi film, Kometen (La Cometa), ha avuto una nomination per l’Orso d’oro al Festival internazionale del cinema di Berlino (Berlinale). La Cometa fa parte della raccolta di novelle Lo Spaventapasseri. Inoltre cinque corti d’animazione sono stati prodotti e realizzati in russo, presi però da Il Ratto. Significa molto per me: vedere la traduzione in immagini dei propri testi vuol dire osservarli vivere al di fuori delle cornici che il libro impone. In fondo si tratta di condividere le idee e pensieri con un regista e seguire la loro trasformazione in altro. Pensare cinema quando scrivo è qualcosa di completamente nuovo, ed è difficile. Non fa ancora parte del mio processo creativo.
La versione teatrale di Kinski e la Morte sarà ripresentata durante l’autunno e poi in primavera presso diverse istituzioni come La Chiesa Svedese e le scuole. Il teatro è un modo per raggiungere quei giovani non abituati a leggere libri. Un modo per farli pensare e discutere su questioni esistenziali che riguradano tutti».
A inizio 2017 è nata la rivista Opulens, da te diretta. Mi puoi parlare di questa nuova avventura, quali temi affronta e con che piglio, cosa la contraddistingue rispetto alle sue concorrenti? Hai mai avuto in precedenza la responsabilità di un magazine?
«Quando ancora ero studente diedi vita, insieme ad altri studenti, a un giornale universitario: Sine qua non. Quello che invece ho fondato ora ha diffusione nazionale e abbiamo noti e bravi collaboratori. Il vero motivo per cui è nato Opulens consiste nel fatto che in Svezia le pagine culturali nelle testate più importanti sono molto diminuite, creando un vuoto. Ed è proprio questo vuoto che vuole contribuire a colmare. Dal momento che abbiamo avuto un grosso riscontro forse l’idea è stata buona. Opulens dà anche spazio alle questioni esistenziali, alla filosofia e alla teologia. Dateci del tempo e vedrete che diventerà uno tra le riviste culturali più importanti qui da noi».
Hai cominciato a dipingere nel 2013. E della pittura dici: è per me la parola impossibile da esprimere in un testo scritto. Quanto scrittura e tela si influenzano? E che rapporto c’è fra loro? Alcuni quadri sono inoltre accompagnati da brevi racconti, o note.
«Per rispondere semplicemente: la scrittura mi pare abbia più legami con la dimensione intellettuale, con il lavoro della ragione; le arti visive appartengono anch’esse alla sfera intellettuale tuttavia hanno la possibilità di uscire dalla costrizione delle convenzioni stabilite, il che è difficile con la letteratura, penso alla grammatica e alle altre regole formali. Secondo me si è liberi quando si dipinge. Questo è stato il motivo per cui ho deciso di cominciare: forzare i limiti del pensiero e dedicarmi totalmente ai colori. Una specie di emancipazione, perchè quando i nodi vengono al pettine quel che conta è arricchire se stessi, osare il cambiamento e trovare la giusta motivazione per farlo. Sono convinto che l’arte nel suo complesso – letteratura, arti visive, film, musica e così via – sia un modo di riempire di senso la propria vita e quella degli altri».
In A twinkling night sky ti soffermi spesso su arte e creazione. Nello stralcio On the deceitfulness of statements parli di bellezza. Vorrei chiudere con una riflessione al riguardo…
«Credo nella bellezza. È qualcosa che dona senso all’esistenza, sia come pensiero che come sentimento. Sul suo concetto si è scritto molto, e si può capire solo quando constatiamo che la vita non sempre è esaltante. Allora diventa una specie di fede: confidare vi sia qualcosa per cui lottare. Anche il viaggiare: la gente attraversa il mondo per cercare gioia nell’architettura, nella musica, nell’arte… Forse la bellezza è un antidoto alla bruttezza, alla solitudine involontaria, alla confusione e a tutto ciò che, in fondo, siamo ma non vogliamo accettare. È un antidoto che dà energia; che ci costringe a creare.
Ma è altresì importante considerare il brutto, il suo contrario. E il motivo è semplice: è quest’ultimo che definisce il bello. Certo, sono interdipendenti, l’una deriva dall’altra, e distinguerli non è affatto semplice. Forse è proprio questa ovvietà piena di dubbio che fa sì che l’arte progredisca oppure regredisca. Il bello ed il brutto vengono continuamente messi in discussione».
Di Carlotta Monteverde
Traduzione dallo svedese di Guido Zeccola
Immagine di copertina: ph. Niclas Kindahl