Osservare le modifiche che interessano le molecole che permettono alle cellule nervose di comunicare tra loro, aiuta a comprendere i rapporti tra le azioni che compiamo e le funzioni cerebrali ad esse associate. Non solo di fenomeni come il movimento e le sensazioni. Anche processi complessi come pensare, memorizzare, cioè creare la nostra individualità, le emozioni, hanno basi biologiche identificabili nella struttura di quei “messaggeri” che mettono in rapporto i neuroni. Lo stesso vale per la patogenesi di alcune malattie neurodegenerative. Le neuroscienze studiano gli aspetti fisiopatologici delle attività mentali connesse ai comportamenti, e il loro campo di indagine è molto più vicino di quanto si possa pensare alle ricerche delle arti contemporanee. Non prova, in fondo, l’arte, a capire, mostrare, cambiare, il modo di relazionarci col mondo? A analizzare l’ambiguità dell’esistenza?¹
Il sistema nervoso è un meccanismo gerarchico che dalle sinapsi si configura in reti, mappe… per culminare col cervello. Il livello minimo è costituito, appunto, dalle molecole, e da qui parte Marco Milia nella installazione omonima (in latino) realizzata negli spazi del CoscioniLAB. In policarbonato, la scultura si compone di incastri, un proliferare di cerchi di diverse dimensioni che in un disordine apparente occupano ogni metro a disposizione. È attraverso la ripetizione dell’unità base che l’artista accenna alla globalità del dispositivo: le parti per il tutto sono il principio su cui si fonda l’opera. Nella dimostrazione del funzionamento del pensiero, può diventare, questo, un esempio di astrazione? Di «formare un’idea generale a partire dal particolare»²? Spiegano Ludovica Lumer e Semir Zeki che gli input che arrivano dal mondo esterno sono instabili e incerti «sicché il cervello, nella sua ricerca di conoscenza, deve essere in grado di scartare i continui cambiamenti per raggiungere l’essenza delle cose». Lo stesso corpo, fluido, polimorfo, cangiante, nasce dalla giustapposizione di figure regolari e semplici: il caos fissato nella chiarezza di una forma chiusa, modulare e riprodotta potenzialmente all’infinito. Marco Milia parla attraverso la linea; ogni elemento si legge dal profilo, dalla circonferenza: ed è grazie al contorno che noi scorgiamo le immagini degli oggetti. «Esse vengono ridotte a invarianti, a concetti visivi, e simbolizzate nell’attività di certi neuroni»³. Lamberto Maffei e Adriana Fiorentini in Arte e Cervello, da cui è tratta la frase precedente, sottolineano inoltre il carattere narrativo o concettuale delle opere legate al segno, a differenza di quelle in cui prevalgono colore e chiaroscuro.
Cosa sta facendo l’autore con Molecula? Sta rendendo espliciti alcuni dei meccanismi noti grazie alle neuroscienze. Invitato dal CoscioniLAB a connotare lo spazio con una impronta plastica e strutturale, sceglie di affrontare i contenuti del primo anno di laboratorio con un’opera di carattere (se si può dire) divulgativo. Non un progetto che nasce da metodologie sperimentali ma un riassunto dei risultati di studi ormai consolidati. D’altronde se le reazioni ai linguaggi visivi sono adeguate per far luce sui procedimenti del sistema nervoso, il sapere umanistico ha spesso attinto a piene mani dalle scoperte e conoscenze mediche, fisiche, chimiche, biologiche, ecc… Si potrebbe, quindi, continuare. Marcando l’importanza dei nodi di giunzione tra i vari cerchi – che sono in numero e posizione studiati a tavolino e rappresentano il ruolo dei neurotrasmettitori nello sviluppo di problemi degenerativi – ma soprattutto ricordando la differenza tra sensi e percezione e il momento in cui le arti hanno sentito la necessità di inserire l’osservatore nell’opera. Happening, performance, installazioni posizionano al centro del proprio discorso chi guarda. L’istanza è figlia della ribellione ai vecchi codici contemplativi/istituzionali, e (a parte sporadici esempi nella prima metà del XX secolo) si diffonde dalla fine degli anni ’50. Gli interventi di Marco Milia prevedono in genere un’interazione (corporea, non solo intuitiva) con lo spettat(t)ore. La scultura in questione, che sembra variare colore al variare delle condizioni luminose, e modifica il proprio aspetto in relazione al differente punto di vista, articolandosi senza un inizio, un centro e una chiusura, richiede una sollecitazione continua dell’immaginazione: per districarsi tra le molteplici probabilità e perché contiene in potenza un’estensione non limitata al manifesto. Ormai sappiamo che qualsiasi lavoro non è una comunicazione unidirezionale. Guardare presuppone sempre un ruolo attivo, creativo. Le informazioni che raggiungono, dall’occhio, il lobo occipitale, vengono smistate e elaborate in due modi complementari (e ricomposte). Da un lato si richiamano le conoscenze a priori, dall’altro si mettono in moto le esperienze pregresse, gli apprendimenti fatti. Oggettivo e soggettivo si fondono nel nostro avvicinamento all’arte. Inoltre, secondo Kandel⁴, le opere astratte impongono una sfida ulteriore; impegnano il sistema visivo a interpretare immagini diverse dal tipo per la cui ricostruzione si è evoluto il cervello. E in assenza di forti indizi figurativi creiamo nuove associazioni. Si potrebbero infine aggiungere, nella ricerca di Molecula, accenni alle nozioni riguardanti la pareidolia, cioè la tendenza a riconoscere forme note in composizioni casuali. Ritornando così da dove siamo partiti.
Ci sono artisti che per anni cercano di sviscerare il medesimo concetto utilizzando tutti i materiali e mezzi possibili. Ve ne sono altri che individuano una strada e la percorrono forzandone i limiti da ogni lato. Milia rientra nel secondo gruppo, impegnato com’è a ragionare sul linguaggio (e le antinomie) della scultura. Le sue installazioni sfruttano pochissimi elementi, la sintesi del quadrato, del cerchio e dell’ottagono. Sono costruite per moltiplicazione, replicando ossessivamente un modulo fino a che l’ambiente non ne sia saturo. Sono legate allo spazio che occupano, e di esso non mostrano contraddizioni e condizionamenti (che impone su chi lo vive); ne sfruttano la storia e le potenzialità per proiettarlo in una dimensione fantastica, dove governano leggerezza e gioco. In qualsiasi costruzione sembra aver rimpianto del movimento moderno, con un occhio alla storia e uno avanti.
Molecula è parte del ciclo che da Idrometeora (2014), in carta, prende corpo nei lavori Nell’essere idrico (2017) e Water way (2018). In ciascuno, il gesto è potenziale, racchiude un’estensione illimitata che solo chi ne è fisicamente immerso può completare. La realtà è un pretesto per scatenare una sensazione di infinito. Molecula simula levità e facilità, nascondendo la complessità dell’organizzazione dietro l’equilibrio perfetto. Esalta i legami continui, contrassegno di passaggio di informazioni; sfrutta il cerchio per indicare processi, materia, impulsi, reti; alterna pieni e vuoti senza imporre una visione prestabilita. Scendendo dall’alto senza invadere lo spazio dei movimenti, corteggia il design e si oppone alla verticalità delle linee dell’ambiente. L’effetto è di alterazione delle funzioni preesistenti; agente patogeno o mutazione genetica.
Sono parecchi anni che Marco Milia sfrutta l’intelligibilità del segno ridotto a pura geometria per raccontare, rendere evidenti, elementi impalpabili come l’aria; per cercare la costante nelle svariate manifestazioni dei fenomeni atmosferici; per spiegare processi complicati come il vivere (edificare) e l’organizzazione del lavoro. Con l’opera donata all’Istituto Luca Coscioni si trova a confronto con le sfide della mente e del cervello, scegliendo (ancora una volta) la via della regola: anarchica e autogenerativa ma sempre regola. Cioè del principio minimo attraverso cui verificare problemi superiori. Come la scienza.
Per l’occasione, e fino al 15 maggio, sono esposti anche una serie di progetti dell’artista, modelli in scala delle installazioni ambientali realizzate dal 2010 ad oggi.
Dal testo che accompagna la mostra “Molecula” al CoscioniLAB. Di Carlotta Monteverde
Marco Milia è nato a Roma nel 1976. Si è diplomato all’Accademia di Belle Arti di Roma, alla cattedra di scultura. La sua ricerca spazia dall’installazione al disegno, con cui analizza la rappresentazione e percezione dello spazio attraverso interventi site-specific, ed include l’interazione del pubblico, chiamato a fare esperienza dei suoi lavori fisicamente, sensibilmente. Nel 2007 entra a far parte della collezione permanente del Museo degli Argenti presso Palazzo Pitti a Firenze nelle nuove sale espositive dedicate al gioiello d’artista contemporaneo. Vive e lavora a Roma. Tra le principali esposizioni personali e collettive: “Water way”, installazione nel Chiostro ex convento San Francesco (Acquapendente, VT), 2018; “Habitat” ad OCRA – Chiostri della Chiesa di Sant’Agostino, Montalcino (2017); 8 Th Festival of Visual Art Arterjia, Novigrad, Croatia, a cura di Jerica Ziherl (2017); “L’Ottavo giorno”, Sala Ottagonale del Liceo Gentileschi, Carrara, personale a cura di Luciano Massari nell’ambito delle Marble Weeks (2015); Biennale di scultura Piazzola sul Brenta, Villa Contarini, Padova (2015); “Crystal Time” Art Student’s League of New York, Vytlacil Artist in Residence (2014); “In aĕre in aquis”, Museo delle Case Romane del Celio, Roma (2013-14); “At what time? Early morning”, Scatolabianca (etc), Milano (2013); “Artefatto – moto urbis”, Museo Arte Contemporanea Revoltella, Trieste (2012).
Note:
1 e 4: Erik R. Kandel, Arte e neuroscienze. Le due culture a confronto, Raffaello Cortina Editore, 2016
2: Ludovica Lumer, Semir Zeki, La bella e la bestia: arte e neuroscienze, Laterza, 2011
3: Lamberto Maffei, Adriana Fiorentini, Arte e Cervello, Zanichelli Editore, 1995