24 giugno – 20 novembre 2022
MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo, Roma
Alessandra Ferrini, Silvia Rosi e Namsal Siedlecki
A cura di Giulia Ferracci

Con opere profondamente radicate nel presente, capaci di scardinare la Storia, la Società, la Natura, per comprendere al meglio una contemporaneità in costante evoluzione, Alessandra Ferrini (Firenze, 1984), Silvia Rosi (Scandiano – RE, 1992) e Namsal Siedlecki (USA, 1986) dal 24 giugno al 20 novembre 2022 sono i protagonisti della mostra, a cura di Giulia Ferracci, della terza edizione del MAXXI BVLGARI Prize, progetto che unisce il MAXXI e Bulgari nel sostegno e la promozione dei giovani artisti.
Allestita nella scenografica Galleria 5 al terzo piano del museo, la mostra presenta tre lavori pensati, prodotti e realizzati appositamente per il Premio, sulla base dei quali la stessa giuria internazionale che li ha scelti – composta da Hou Hanru, Direttore Artistico del MAXXI, Bartolomeo Pietromarchi, Direttore del MAXXI Arte, Hoor Al Qasimi, Presidente e Direttrice Sharjah Art Foundation, Chiara Parisi, Direttrice Pompidou- Metz e Dirk Snauwaert, Direttore WIELS Contemporary Art Centre – decreterà il vincitore, la cui opera entrerà a far parte della collezione del MAXXI.
La prima parte del percorso espositivo, all’ingresso della Galleria 5, accoglie lo spettatore in una Archive Room in cui, su pareti caratterizzate da un motivo che ricorda l’antica arte giapponese del Kintsugi, tre teche raccolgono materiali e appunti che hanno ispirato gli artisti nella realizzazione dei loro lavori.
Il percorso espositivo si apre con Gaddafi in Rome: Notes for a Film, di Alessandra Ferrini, una video installazione che, con l’approccio auto riflessivo tipico dell’essay film, analizza la prima visita ufficiale in Italia di Muammar Gheddafi nel 2009, per celebrare la firma del Trattato di amicizia, partenariato e collaborazione tra Italia e Libia. Un accordo nato dalla necessità per l’Italia di assicurarsi l’approvvigionamento di carburante e di fermare il flusso dei migranti verso le coste del Sud, per il quale il nostro Paese ha dovuto piegarsi alla richiesta di un risarcimento per l’occupazione coloniale sotto forma di investimenti finanziari e infrastrutturali. Quello stesso trattato ha ratificato la politica dei respingimenti, ha causato la violazione dei diritti umani di tanti, ha dato origine ad accordi simili in UE.
Partendo dal meticoloso reportage realizzato in quei giorni di visita ufficiale dal quotidiano La Repubblica – occasione per l’artista di una riflessione sulle forme contemporanee di produzione e fruizione delle notizie – Gaddafi in Rome opera una vera e propria dissezione della “messa in scena” dell’evento, ispirandosi direttamente alla pratica delle dissezioni pubbliche nei Teatri Anatomici dal Medioevo in poi, di cui resta una citazione nella tenda che compone parte dell’allestimento, su cui è stampata l’immagine del Teatro Anatomico dell’Università di Padova (il più antico in Italia).
Sollevando temi come il rapporto tra velocità di comunicazione e reale comprensione di eventi geopolitici complessi, la spettacolarizzazione mediatica degli eventi, il travagliato rapporto dell’Italia con il suo passato coloniale, Gaddafi in Rome è un invito a una riflessione più ampia, che non da soluzioni, ma lascia agli spettatori lo spazio per trarre le proprie conclusioni.
Il percorso continua con Nuovo Vuoto di Namsal Siedlecki, un viaggio metaforico nato dall’interesse dell’artista per gli spazi vuoti all’interno delle sculture in bronzo fuse a cera persa. Partendo da una di queste forme interiori – ricavata da una mano bronzea comprata online – Siedlecki parte alla ricerca della “scultura originaria” che la custodiva. Tramite scansioni in 3D e ricomposizioni vettoriali, e grazie all’uso di tecnologie robotiche, l’artista realizza 6 opere composte da una scultura e il suo plinto, ogni volta in materiali diversi. La prima – in gesso e cemento – rappresenta la condizione attuale dell’Umanità, artefice di uno sfrenato sfruttamento della Natura. La seconda, realizzata in legno di Cirmolo con un plinto in marmo simile a un abbeveratoio forato, mostra la mano nel suo primo stadio di mutazione, mentre la terza, composta da una stufa in terracotta su cui posa una mano in gres, rappresenta la trasformazione della materia, di cui le pratiche di lavorazione dell’argilla sono esempio perfetto. La fase della sintesi è rappresentata dalla quarta scultura, una colonna in polistirolo e una mano in poliuretano azzurro, materiali artificiali nati dalla conoscenza dell’uomo. Nella quinta scultura su un basamento in alluminio realizzato da un programma di intelligenza artificiale, si torna al materiale originario, il bronzo, per scoprire una versione primordiale della forma, cambiata dalle esperienze del viaggio compiuto; stessa forma presentata dalla sesta e ultima opera, realizzata senza plinto, in vetro soffiato, pronta ad accogliere il futuro.
Il mancato intervento dell’uomo ha lasciato ogni volta, nelle forme generate dalle macchine, errori che ne hanno trasformano le successive realizzazioni: un modo per l’artista di rappresentare la sequenza di esperienze che ci ha portato a essere quello che siamo. Solo nella consapevolezza del passato, infatti, è possibile iniziare un nuovo percorso di coesistenza.
Conclude la mostra l’opera Teacher Don’t Teach Me Nonsense (2022) di Silvia Rosi, artista italo-togolese che ha trovato nella fotografia una pratica di ricerca sulla memoria, per comprendere come ricordiamo e perché dimentichiamo. La sua ricerca, che attraverso video e fotografie affronta la storia della sua famiglia e la sua eredità identitaria, in questa occasione si esprime in un progetto dedicato alle lingue Ewe e Minà, un tempo parlate in Ghana e Togo. Nonostante il tentativo operato dai colonialisti di lingua francese e tedesca di sradicarle attraverso l’alfabetizzazione delle popolazioni autoctone, l’ewe ha resistito nei secoli grazie alle famiglie, a numerosi studi linguistici, e a pratiche artigianali che vedevano inserite frasi in ewe come decorazione dei tessuti degli abiti. Il lavoro di Rosi, composto da tre gruppi fotografici e video, mette in evidenza l’importanza della lingua nel processo di affermazione identitaria di una popolazione e degli individui, e riflette su questioni strutturali normalizzate dai processi coloniali avvenuti in Togo, sottolineando come la politica linguistica metta in luce tutta l’ambiguità del progetto coloniale di conversione delle popolazioni autoctone.

Alessandra Ferrini (Firenze, 1984) vive e lavora a Londra dove sta svolgendo un dottorato presso la University of the Arts con il progetto Gaddafi in Rome: Notes for a Film. Artista, ricercatrice ed educatrice, attraverso la sua produzione sperimenta diversi linguaggi e strumenti espressivi, spaziando da film d’essai a progetti collaborativi come Radio Ghetto Relay (2016), fino alla creazione di grandi installazioni come A Bomb to Be Reloaded, presentata in occasione della sua personale a Villa Romana (Firenze) nel 2019. Basati su un’indagine di tipo storiografico e archivistico, i lavori di Ferrini aprono lo sguardo oltre le interpretazioni tradizionali del fascismo e del colonialismo italiani analizzando in particolare la complessa trama di relazioni politiche, economiche e culturali che l’Italia ha intessuto con i Paesi africani e dell’area mediterranea. La costruzione della storia ufficiale come prodotto di narrazioni ideologicamente condizionate, manipolate dalla propaganda e dai mass media, è al centro dell’indagine critica che l’artista svolge su fonti, immagini, documenti noti o ritrovati nel corso delle sue ricerche, puntando a elaborare nuove metodologie per comprendere il nostro presente attraverso la rilettura del passato.
Nel 2017 Ferrini ha vinto l’Experimenta Pitch Award al London Film Festival (British Film Institute) e dal 2021 è ricercatrice associata alla British School at Rome. Il suo lavoro è stato presentato presso varie istituzioni in mostre internazionali, proiezioni e conferenze, tra cui l’ar/ge kunst (Bolzano, 2022), il MOMus-Museum of Contemporary Art (Salonicco, 2021), il Museion – museo d’arte moderna e contemporanea di Bolzano (2020), il Sharjah Film Platform (2019), parte del programma collaterale della XVI Biennale di Istanbul (2019), la II Lagos Biennial (2019), il Manifesta 12 Film Programme (Palermo, 2018), la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo (Torino, 2018 e 2020, 2021 e 2022), il Royal Anthropological Institute Film Festival (2017 e 2021), la VI Taiwan International Video Art Exhibition (Hong-Gah Museum, 2018), la XVI Quadriennale di Roma (2016-2017).
Silvia Rosi (Scandiano, 1992) vive e lavora tra Londra e Modena. Si è laureata in Fotografia al London College of Communication nel 2016. La sua pratica artistica è ispirata dalla propria vicenda biografica e dalla tradizione dei ritratti in studio dell’Africa occidentale. Tra i suoi lavori più importanti si ricordano i progetti Election Box (2012), Neither Could Exist Alone (2021) e in particolare la serie Encounter che nel 2019 segna una fase importante della sua ricerca espressiva centrata sul tema dell’identità individuale in rapporto al proprio vissuto personale e all’esperienza della diaspora. L’immagine di sua madre mentre trasporta degli oggetti sulla testa al mercato di Lomé dà origine al desiderio di interpretare e ripercorrere la storia dei suoi genitori, dando nuova veste visiva ad abitudini e gesti quotidiani legati alla giovinezza trascorsa in Togo. Rosi sperimenta il genere dell’autoritratto come dimensione performativa e strumento per viaggiare a ritroso nel tempo, per riportare nel presente tradizioni e ricordi tratti da album di famiglia e racconti orali tramandati. In questo processo di analisi e rilettura della propria eredità togolese la fotografia assume il valore di un profondo atto di resistenza contro la cancellazione della memoria e la perdita della propria soggettività individuale, storica e culturale.
I suoi ritratti sono stati premiati ai Jerwood/Photoworks Awards, ottenendo uno dei riconoscimenti più importanti per artisti emergenti che utilizzano la fotografia, e sono stati inclusi nel progetto del “British Journal of Photography”, Portrait of Britain (2020). Le opere di Rosi sono state esposte in diverse manifestazioni internazionali, tra le più recenti Circulation(s), Festival de la jeune photographie européenne (Parigi, 2022), Autograph ABP (2021) e la mostra In the Now: Gender and Nation in Europe (LA, 2021), e pubblicate sulle riviste “Foam”, “Elephant Magazine” (UK), “The New Yorker” (US) e “Griot” (IT).
Namsal Siedlecki (Greenfield, USA, 1986) vive e lavora a Seggiano (Italia). Ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Carrara dove si è diplomato in scultura nel 2010. Nella sua pratica artistica, lo studio di lavorazioni e tradizioni antiche riscoperte in viaggi intorno al mondo convive con la sperimentazione continua di materiali non convenzionali e tecniche all’avanguardia. Le sue opere presentano un dialogo costante tra passato e presente, tra culture distanti, tra spirituale e terreno, che ispira un approccio alla scultura sempre diverso, caratterizzato da un’attenzione scientifica e antropologica alla materia e al suo potenziale narrativo e semantico. Ne sono un esempio i lavori esposti nella sua personale all’Académie de France à Rome – Villa Medici nel 2020, frutto delle trasformazioni dettate dal processo galvanico che l’artista sperimenta da diversi anni, e ancora il progetto Mva Chā (2019) basato sul recupero di un’antica tecnica di fusione – appresa nel corso di un lungo periodo di residenza a Kathmandu – che Siedlecki personalizza lasciando a metà il processo di produzione delle sculture. Procedendo dal finito al non-finito, dall’esterno all’interno della forma, le opere di Siedlecki scardinano l’immagine fissa e ieratica tipica della tradizione scultorea, spesso vivendo e rivelandosi allo spettatore in una dimensione di perenne movimento e metamorfosi: uno stato di trasformazione della materia che l’artista predispone, innesca ma sceglie di non dominare completamente e che diventa metafora del rapporto dell’uomo con la natura.
Le sue opere sono state presentate in diverse mostre in Italia e all’estero, tra le più recenti si ricordano Nulla è perduto. Arte e materia in trasformazione, GAMeC (Bergamo, 2021), Namsal Siedlecki: Viandante, Istituto Italiano di Cultura (New York, 2021), Mva Chā, Fondazione Pastificio Cerere (Roma, 2020) e Patan Museum (Kathmandu, 2019), Trevis Maponos, In Extenso, Musée Bargoin (Clermont-Ferrand, 2019). Nel 2019 il suo lavoro è risultato vincitore del Club GAMeC Prize e del XX Premio Cairo.
MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo
Via Guido Reni 4/a, Roma
06 3201954, infopoint@fondazionemaxxi.it, www.maxxi.art
Orari: da martedì a venerdì 11 – 19; sabato e domenica 11 – 20
Biglietti: intero € 12, ridotto € 9