Ultima settimana per vedere la mostra della giovane artista italo-francese Lulù Nuti alle Case Romane del Celio. L’esposizione, dal titolo Sistema, è un complesso reiterarsi di forme geometriche nello spazio, un intricato gioco di rimandi tra installazioni, elementi decorativi e strutturali, una “silenziosa” messa in scena dell’incessante logorio cui ogni manufatto umano (massicce edificazioni comprese) è sottoposto.
L’intervento è il terzo e ultimo di un progetto in più tappe a cura della Takeawaygallery: da dicembre 2013 a marzo 2016 si sono avvicendati negli oltre venti ambienti ipogei Marco Milia, Giancarlo Neri e, appunto, Lulù Nuti. Per diversi mesi ciascuno, hanno occupato le sale elaborando percorsi site specific: il primo (dal 7 dicembre 2013 al 3 febbraio 2014), con In aĕre in aquis, ha lavorato sull’idea di domus, riportando la “vita” – con i suoi cerchi e parallelepipedi in policarbonato trasparente e blu a simboleggiare acqua e aria – all’interno di una casa. Giancarlo Neri (dal 29 novembre 2014 al 16 marzo 2015), con Latinorum, si è focalizzato sull’idea di scoperta, simulando quella che possiamo immaginare essere stata l’atmosfera che si respirava negli scavi durante l’epoca dei pionieri dell’archeologia, e trasformando i visitatori in ipotetici esploratori alla ricerca di tesori nascosti (piccoli oggetti dorati disseminati tra le stanze). Lulù Nuti infine (dal 19 dicembre 2015 al 7 marzo 2016) ha affrontato e considerato il sito come prodotto dell’ingegno, organismo “in bilico” tra i fasti del suo apogeo e l’inevitabile destino di rudere e rovina, ma spostando l’interesse verso tutto ciò che non si vede: il pensiero prima, la capacità tecnica e la costante cura e impercettibile manutenzione poi. Non solo il fascino dell’antico dunque, ma principalmente della perizia contemporanea. Non a caso la mostra si chiama Sistema: ponendo in risalto anziché occultare accorgimenti strutturali, di “messa in opera”, Lulù Nuti rende omaggio alla ossessiva quanto salvifica conservazione della storia, sollecitando però l’osservatore a guardare con sensi più acuti all’oggi, dunque al domani. Forse è per questo che sceglie dei materiali tradizionali, il ferro e il gesso, per le sue installazioni: la rottura è meno brusca, la frattura col passato sembra meno radicale.
Tutta l’esposizione ruota infatti attorno all’idea di ciclo; «è un viaggio nella degradazione della materia», racconta l’artista. Dalla prima all’ultima sala si vedono i componenti delle sculture mano a mano logorarsi, mischiarsi, alterarsi. Nascita maturità consunzione, di nuovo nascita. L’intero percorso sembra sottintendere una assillante, persistente domanda: come costruire il futuro? Su quali basi?
Stesso interrogativo che ci pongono i paesaggi/Orizzonti tascabili, la voluminosa opera Réserves, e alcuni lavori antecedenti, ad esempio Metamorphosis Garden, realizzato in Giappone nel 2012; i Territoires Perdus (2011-13) e probabilmente anche le bozze, rimaste su carta, di corde simili a liane, intrecciate, sovrapposte, in tensione, immaginate ancora alle Beaux Arts. Ogni tassello corrisponde alla medesima esigenza di “sapere”.
La questione dunque diventa: se l’arte consiste in un susseguirsi di dubbi e quesiti, a chi spetta il compito di fornire delle risposte?