Leggendo sul sito ufficiale, le stime del 2017 sembra si attestino sulle 35000 presenze, mentre chiacchierando nell’Ufficio Turistico ho appreso che, per quanto riguarda la provenienza, le percentuali maggiori spettino alle zone di confine della Valle d’Aosta, della Lombardia e del Friuli Venezia Giulia; oltre che alle regioni più vicine: Abruzzo, Puglia e Basilicata. Si sono contati anche stranieri: assieme agli inglesi che stanno acquistando case in paese, alcuni statunitensi e sudamericani. In un lustro quella che è nata come una festa di tre giorni predisposta in pochissimo tempo e con un numero contenuto di iniziative è divenuta una macchina organizzativa enorme con un palinsesto h24 e un via vai di gente sempre nuova.
Calitri vive di agricoltura. Dopo il terremoto del 1980 – che ha messo in ginocchio l’intera area provocando quasi 3000 morti, 9000 feriti, 300000 sfollati e il crollo di 150000 abitazioni – sono state create fabbriche, di tessuti, chimiche…, coi fondi statali per la ricostruzione. Che con lo stop alle sovvenzioni (ultimo decennio) hanno chiuso, lasciando a casa centinaia di persone, e con problemi di smaltimento dei rifiuti. Mi ha spiegato chi vive lì 365 giorni l’anno (ma è storia nota): «I giovani, quelli che non vanno via, non riescono ad accedere ai contributi per avviare attività, agrarie principalmente; e si sostengono con le pensioni dei vecchi. Mentre gli esercizi consolidati campano coi forestieri facendo salti mortali d’inverno. Poi da quando non gira l’economia edilizia si è bloccato tutto».
Ho conosciuto un ragazzo che dopo aver studiato all’università qualcosa come Management dei Beni Culturali è rientrato in paese. E come lui altri: con il festival le speranze di una riconversione del territorio in centro di attrazione turistica sono davvero alte. La terra, d’altronde, è ammaliante: d’estate è nera e gialla e si allunga a perdita d’occhio per chilometri e chilometri. L’Ofanto, la natura, il Lago delle Canne, gli abitati digradanti, le fortezze, Borgo Castello, i vicoli, i cieli stellati, la Cupa, la Mefite e l’Abbazia del Goleto.
La parola che è circolata maggiormente durante la quinta edizione del festival è stata comunità, assieme alle sorelle collettività, fratellanza, relazione. Nella ridefinizione della vocazione di un luogo porre le basi della rigenerazione nell’incontro significa prendere la direzione della produzione costante e non arroccata di cultura. E lo Sponz ne è modello e volano: non solo visibilità e attenzione, che è comunque molto. In cinque anni l’evento – che dagli stessi organizzatori è stato definito come un non festival, che ha già una data di scadenza (come un matrimonio, sette anni, altri due) e che ha in previsione una versione invernale – ha imposto una visione plurale, dinamica; con la musica che nella sua immediatezza, nella vicinanza di suoni provenienti da latitudini e epoche diverse, ha comunicato convivenza di eredità, futuro e diversità, consumandosi nella partecipazione e nello scambio.
Per la settimana dal 21 al 27 agosto 2017 il tema scelto è stato “All’incontre’Я – Яivoluzioni e mondi al Яovescio”: nel centenario della Rivoluzione Russa il grido all’incontrè (il cambio del giro nella quadriglia in Irpinia: Contrè Girè All’incontrè!) propone una osservazione rovesciata delle cose, un modo di approcciarvi all’incontrario appunto, secondo prospettive non convenzionali. Non a caso il festival si è aperto col giorno di riposo e la festa iniziale si è tenuta la penultima sera, concludendosi, nelle parole del direttore artistico Vinicio Capossela (citando Piero Camporesi), così: «Nel mondo alla rovescia, al di là della satira e della caricatura, c’è pur sempre, nelle sue raffigurazioni, la protesta dell’uomo che vorrebbe vivere in mezzo a una comunità migliore, la quale non è tale perché il servo è diventato padrone, il cacciatore cacciato e il cavalcatore cavalcato. Ma perché essa può riabbracciare in una fattiva armonia gli uomini tutti, i servi e i padroni, gli animali e le cose».
Ma cosa significa Sponz? Viene dal dialetto sponzare, da spugna, imbeversi… mettersi in ammollo tra musica e storie. Musica e storie che hanno scandito le 24 ore trasformando il vuoto in pieno, e viceversa, con concerti all’alba, lezioni serali e focolai spontanei di suoni e voci. È stata allestita una interessante sezione arte, ideata da Mariangela Capossela e a cura di Tommaso Evangelista, che ha avuto per protagoniste le opere del Collettivo FX, e di Andrea d’Amore, Michele Giangrande, Silvio Giordano, Michele Mariano, Virginia Zanetti, con un omaggio a Pippa Bacca. In ordine sparso e a memoria (quindi dimenticando i più): ci sono stati gli incontri con Erri De Luca e i docenti della Libera università per ripetenti, i reading e le Parole d’Altrove di Vincenzo Costantino Cinaski, le albe al castello, le proiezioni, i viaggi sul treno storico con carrozze degli anni ’50, e gli immancabili Mariachi Tres Rosas, onnipresenti a ogni spostamento. I concerti si sono alternati lungo l’arco delle nottate, chi alle 22.00, chi a orario inoltrato, chi alle prime luci del mattino: Massimo Zamboni, Xilouris White; Daniele Sepe “Capitan Capitone” e i Fratelli della Costa; Massimo Simonini, Victor Herrero, i Dobranotch e il turco Umut Adan, che si sono susseguiti assieme a altri autori nel Grottoski Theater; EmiR Kusturica & The no smoking orkestra e tanti tanti ancora. E Vinicio Capossela, infaticabile maestro di cerimonia, anche lui partecipe sempre, ovunque, generoso con ospiti e testimoni, che cito di nuovo in chiusura: «Qualcuno qui si è rigenerato, molti si sono ricreati, io mi sono consumato in una malattia per la quale già pensiamo a resuscitare nella stagione silvestre – tra la fine e l’inizio dell’anno, strettoia di spettri e di fuochi- uno Sponz R’ Viern per i martiri del Ricreo».