di Carlotta Monteverde / gennaio 2017
Compositore, musicista, musicologo, Francis “Superguitar” Kuipers ha una voce roca e profonda, una risata fragorosa e le sue performance dal vivo combinano ritmi folk e blues a testi graffianti e surreali. Ha suonato come solista in tre continenti (Europa, America e Oceania) e in coppia assieme a Antonello Salis, Massimo Urbani, Luis Agudo, Enrico Micheletti, Joe Garceau, Janet Smith, and Champion Jack Dupree (tra gli altri), mentre con Luigi Grechi è stato ospite di Francesco De Gregori nel tour in Italia e Svizzera del 1989. Ricercatore fin dai primi ’60 di sonorità etniche e tribali, nel nostro Paese è conosciuto soprattutto per aver condotto numerose trasmissioni radiofoniche per Radio 3. Memorabile il sodalizio artistico con Gregory Corso: avanti e indietro tra lo Stivale e New York negli anni ’90, i loro spettacoli potevano durare anche sedici ore dove il poeta della Beat Generation, senza distinguere tra il palco e realtà, con la sua energia mostruosa, illuminava i posti (Kuipers).
Direttore del Dipartimento di Musica e Suono di Fabrica, il centro di Comunicazione Multimediale fondato da Oliviero Toscani e Luciano Benetton (1995-98), per cui ha vinto Le Grand Prix di Europa 1995-96, oggi, avendo allentato l’attività dal vivo, si dedica principalmente alla composizione di colonne sonore per film. Con Philip Glass ha realizzato le tracce di Anima Mundi, Evidence e Naqoyqatsi, del regista Godfrey Reggio; dal 2005 collabora con Abel Ferrara: sue le musiche nei lungometraggi Mary, Napoli Napoli Napoli, Go Go Tales con la voce di Grace Jones e 4:44 The Last Day on Earth.
Partiamo dalla fine, dai Kings of Lies, il tuo ultimo gruppo olandese assieme a Sam Tjioe e Franc auf dem Brinke.
«Sono nati un anno fa. Prima ho suonato spesso da solo o con molte persone in duo. Con Gregory Corso per esempio, Antonello Salis, con Enzo Pietropaoli. Facevamo il mio repertorio, tutta gente diventata famosissima… con Massimo Urbani, lui era fortissimo, ammazza che bravo. Ho suonato anche altri generi di musica. I Kings of Lies fa mie canzoni, sono nuovi brani, piacciono assai pure alla gente, ho avuto delle critiche bellissime».
Ironia, assurdo, paradosso gli stratagemmi con cui racconti della realtà che ci circonda…
«Le parole sono importanti, i miei testi non parlano mica di amore, parlano soprattutto di bugia; la società è basata su questo. È il re delle bugie che viene bruciato in piazza perché si è scordato cosa ha detto. Ma sono anche divertenti perché io provoco attraverso la delizia umana, tramite la risata. Non c’entrano niente con le canzoni normali, solo melodicamente. Narrano storie surreali, sono complicate, non facili».
Le radici sono nel blues, nel folk, ma le contaminazioni sorprendenti…
«Sì, è l’impostazione, il modo di schiacciare le corde, ho imparato da lì. Ma tanti della mia generazione, non sono l’unico. Ero un ragazzino olandese che sentiva Wagner, il valzer, Strauss. Poi sono stato in Inghilterra come studente: gli Americani ci hanno liberato dopo la guerra, c’era Radio Luxembourg, e qualche altra stazione dove si sentiva un country fantastico, e rock’n’roll e il blues. Non era locale, era la cultura americana, ma non quella americana ufficiale. Il blues non ha toccato solo me, non c’è stile di musica che non ne sia stato influenzato».
Sei andato alla ricerca delle fonti?
«L’ho fatto dopo. A Parigi c’erano molti vecchi bluesman e ho suonato con parecchi di loro. Ma non sono stato nel Sud degli Stati Uniti se non più tardi. Non andavo in America in quel periodo. In Polinesia piuttosto, in Australia, India. La musica indiana mi interessava molto, ho lavorato tanti anni con autori indiani. Mi piace ogni genere di musica, basta che ci sia qualità. Non penso solo al blues».
Hai iniziato a viaggiare prestissimo, soprattutto per studio.
«Sono entrato nella musicologia, nella magia della musica. Sono noto più come musicologo che musicista oramai. Sai, ho dovuto campare di questo lavoro. Era davvero interessante un tempo e sentivo che stava per finire un’epoca, che si stava globalizzando, e ho avuto la fortuna di vedere parti del mondo prima degli aeroporti, della grande massa di turisti. Sono fuggito da casa, e a 21 anni sono sparito, ma già suonavo di mestiere la chitarra. Prima in Spagna, a Parigi, poi nei mari del Sud».
La tua ricerca si focalizzava su tradizioni che stavano scomparendo…
«Era l’inizio del folk revival e la gente riscopriva sonorità dimenticate. Era molto stimolante, le radici della nostra umanità. Io cercavo, e cerco ancora, ma meno di prima perché allora mi capitavano programmi radio in Nuova Zelanda, alle Seichelles, in Inghilterra… L’unica cosa che mi affascina adesso è l’epoca della pietra, del principio del mondo; l’ultima volta in cui è stato globalizzato e avevano tutti la stessa cultura, lo stesso modo di vivere, in Australia, in Norvegia, nelle grotte. E facevano le stesse musiche. Certe serie di note, di silenzi, intervalli che abbiamo oggi sono stati sviluppati dall’uomo primitivo quando non c’erano ancora le religioni».
Trovare dei suoni in comune in ogni civiltà.
«Con la musica si crede di poter conquistare la morte. E alcune combinazioni di effetti acustici sono come miti, verità, o fiabe. Danno sensazioni precise, ti portano in una determinata direzione. Anche chi crea pubblicità subliminale per farci comprare mutande lo sa, e schiaccia gli hertz. Dei suoni calmano, altri ti fanno incazzare, dipende dalla intenzione. A me interessa la loro funzione. E mi è venuto utile nel lavoro, con Philip Glass per esempio, perché sa che conosco cose di cui pochi sono al corrente».
Cosa hai realizzato con Glass?
«Quattro film. Adesso ne ho un altro in arrivo. Faccio ricerche mostruose per lui, come una sui nativi americani. Ho un archivio pazzesco di suoni in campagna. Unico direi. Ho antiche registrazioni dalle quali prendo le informazioni, e anche qualcosa che ho inciso io di persona ma di qualità molto scadente. Questi dischi non li trovi più, o sempre meno; se non vengono venduti in milioni di copie spariscono. Ho avuto un budget per comprarli, varie volte nella vita. Anche quando lavoravo alla Rai i discografici mi mandavano materiale interessante, molto specifico».
In Italia andavi in onda su Radio Tre…
«Facevo molta radio, sul blues, sul country, sulla roba che conoscevo. Quattro grandi serie, forse di più. Una in particolare dal vivo, dove raccontavo la storia del mostro del lago e inventavo racconti simili. Lo facevo musicalmente, con Antonello Salis che già all’epoca era bravissimo e ci siamo divertiti come dei pazzi. Un’ora ogni sabato pomeriggio in teatro in via Asiago: mettevo melodie di indiani, qualsiasi cosa volessi, avevo libertà totale. Ascoltando i nastri neanche io capisco il mio italiano. Era talmente eccentrico, cantavamo i brani di Elvis Presley, improvvisavamo. La gente impazziva, cercava di entrare, c’erano fan. Un programma radio in Rai non deve avere un successo così. Erano gli anni ’80 penso. Siamo diventati anche famosi, Antonello e io, per parecchio tempo».
Insieme avete fatto, di conseguenza, spettacoli live.
«Con i miei brani, nel modo nostro di fare blues. Venivano a vederci folle enormi… ma all’epoca era così, a tutti gli spettacoli, non solo ai miei. Il livello, in generale, era alto; c’era musica eccitante in giro e la gente seguiva anche ciò che non conosceva. È aperto il pubblico italiano, mi ha trattato sempre molto bene. Le canzoni che faccio io erano da matti per quell’epoca. Nello stesso periodo, poi, c’era un grande manager italiano che portava gruppi più sperimentali possibile. Grazie a lui abbiamo sentito un jazz fantastico e suoni sul rasoio del futuro; la situazione era avanti rispetto a oggi».
Qual è la differenza?
«Ogni cosa sta diventando mainstream, è l’industria musicale. Adesso è la direzione della tecnologia: i messaggi sono interessanti, varie altri elementi, i dj sono eccitanti; ci sono ancora cose buone ma non c’è più libertà di movimento, secondo me. È vietato ballare oramai nel mondo occidentale, come nel Medioevo; siamo sotto sorveglianza continua. È vietato ballare, è vietato suonare, sempre meno locali propongono concerti dal vivo. Sono segnali molto tipici: la prima cosa che fa il missionario quando arriva in un posto che è considerato inferiore gli toglie la danza e gli strumenti, perché così ha la sua anima. E questo tipo di colonialismo sta succedendo proprio a noi, qui, e nessuno si accorge. La musica non costa niente e dà solo piacere e gioia, fa star bene le persone insieme. Ma è impossibile ovviamente opprimerla, sorge sempre fuori. Come il blues che è uscito dagli schiavi, dove tutto era proibito».
Mi stavi raccontando della collaborazione con Philip Glass in diversi film. Sono oltre dieci anni che componi le colonne sonore anche per Abel Ferrara. Me ne parli?
«Con Philip ho lavorato per Godfrey Reggio, che realizza opere astratte: non c’è attore, non c’è voce, solo musica e immagine. Abbiamo fatto Anima Mundi per esempio, sugli occhi degli animali, bellissimo se non l’hai visto, dura 26 minuti, è un piccolo capolavoro. Capisci lì come mi muovo: ho messo un sacco di suoni, percussioni, cori maori o eschimesi, ho usato melodie etniche. Ho comprato i diritti e dopo li ho fatti cantare. Non è facile perché lui mi fa sentire qualcosa e io devo intuire “ah, questa è la direzione, andiamo qui”; non è lui che me lo dice, è lo script del film. Lavorare per il cinema di Abel Ferrara, che è di narrazione, è diverso, non c’entra niente. Con Abel invento ogni genere, anche la musica cinese, qualsiasi armonia serva. L’arte è che non devi inserire note alte, devi rimanere giù perché non sai mai dove va il dialogo, capito?»
Avete ottenuto anche importanti riconoscimenti, vero?
«Una musica su cui ho lavorato ha vinto l’Oscar, quella scritta per Anima Mundi: l’hanno acquistata e usata per The Truman Show, e ha vinto. Senti i suoni che ho preso dagli eschimesi ma tutti l’hanno imitato dopo e non posso farlo più. Per il film in programma in 3 dimensioni devo pensare a un suono inedito, deve venire fuori una idea nuova».
Sei già in fase di sperimentazione?
«Tutti questi mondi in cui cercavo prima, tutti questi popoli, voglio guardare più indietro, dove si trova la verità, all’inizio del mito; per trasformarlo in qualcosa di moderno. Oggi spariscono cinque culture al giorno, linguaggi musicali, ma universi sconosciuti si rivelano, tramite tele o microscopi in laboratori, universi prima considerati silenziosi e che invece hanno rumori e suoni e espressioni. Non sarebbe stato possibile senza microfoni sviluppati per ragioni di guerra. Le tecnologie stanno distruggendo tante cose ma ne mostrano anche di nuove. Penso che l’unica scelta possibile sia in quella direzione».
A proposito di collaborazioni, forse la più straordinaria è stata con Gregory Corso…
«Ho avuto una grande fortuna a conoscere Gregory, lui era leggendario. Abbiamo lavorato a New York prima, e fatto parecchi spettacoli, divertentissimi: se erano troppo studiati non era beat, le poesie erano le stesse, ma ogni volta si cambiava. Insomma, dopo un po’ ho capito che bisognava arrivare all’ultimo momento perché se andavamo in anticipo per provare… Lui non era musicista, era un letterato, soprattutto un festaiolo, e cominciava subito lo show, dalle 5 del pomeriggio. Iniziava a venir gente, donne specialmente, lo portavano via nei bar a bere come spugne e lui già recitava, non distingueva tra il palco e realtà e aveva una energia mostruosa, un’energia fantastica, illuminava i posti. Allo spettacolo si presentava sempre con un’ora di ritardo, e io dovevo tenere il pubblico e non ero certo che si sarebbe fatto vivo o no. Ma cosa vuoi, beat generation era quello, era gente di strada.
Anche durante lo spettacolo era faticoso. C’erano di solito 3000 persone, era normale all’epoca. Nessuno capiva ciò che diceva, non conoscevano l’inglese, ma capivano la sua forza e in più lo avevano letto perché era un mito. Era come camminare su un rasoio, non sapevo mai quello che sarebbe successo. Lui aveva l’abilità, come un grande buffone, di fare trasformare la rabbia in humor, poteva fare incazzare la gente fino al punto di esplodere e dopo, nel momento mostruoso di tensione, farla entusiasmare. E lui si divertiva così. Per il prezzo di ingresso di 10mila lire ti dava tutte le emozioni possibili, da horror a delizia, da ridere a crepapelle a disgusto, a furia. Più di una volta siamo dovuti fuggire perché è andato storto qualcosa. Mi ricordo che siamo scappati dalle finestre di un bagno a L’Aquila; era di notte con una tempesta pazzesca e il pubblico era aggressivo e ci siamo buttati dentro il Volkswagen; Gregory dietro con una bottiglia di whiskey ubriaco fradicio che cantava l’opera. Io dovevo guidare la macchina sull’autostrada con una pioggia spaventosa e le luci molto basse, e mi sono fermato otto, dodici volte, non si vedeva un tubo».
Per quanto tempo siete andati avanti?
«Anni, ma non spesso perché lui non era rockettaro, si stancava molto durante gli incontri. Un musicista fa uno spettacolo e dopo due ore e mezzo ha finito, ma Gregory durava 16 ore intense, e non era più giovane, e non lo faceva volentieri perché già la sua vita era così. Erano forse gli anni ’90, in Italia, non ricordo, non ricordo neanche quando è morto, non sono buono con le date».
Oltre alla musica ti stai dedicando alla scrittura.
«A breve uscirà il mio libro in Inghilterra, Blues disastroso si chiama. È in traduzione adesso, dall’editore, per pubblicarlo in Italia. Ne ho altri due. Visto che abito qui, tutte le storie sono ambientate in Italia. È narrativa, sono romanzi. Blues disastroso è molto divertente perché parla della scena musicale degli anni ’70 e ’80, e alcuni personaggi sono identificabili. Io lavoravo tanto all’epoca, la conosco bene… Il tempo di Aldo Moro, quando l’hanno sequestrato: facevo spettacoli e era sempre pieno di polizia. Ne sto già scrivendo uno nuovo».
Per concludere: sei appena rientrato dall’Olanda dove hai tenuto un concerto, e tra pochi giorni sarai alla TAG a Roma con Goran Mimica al basso. Cosa ci dobbiamo aspettare?
«Improvviserò parecchio, dipende dall’atmosfera; canterò tutti pezzi degli ultimi anni, canzoni d’autore mie. Farò anche qualcosa di più conosciuto. Vediamo, sarà una serata esplosiva».
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