LACC: The Magazine of Everything è l’ultimo dei tuoi vulcanici progetti. Vera e propria rivista, ormai al quinto numero, parte a fine 2015 e ha già trovato una nicchia di appassionati e di artisti che ne condivide gli intenti. Ci spieghi meglio le specificità e il concept che ne è alla base?
Massimo Scognamiglio: The Magazine of Everything nasce come opera artistica prima ancora che come magazine tradizionale perché vuole negare l’intervento redazionale; tratta direttamente con gli artisti – fotografi, scultori e altri rappresentanti delle arti – ma con una regola: una volta che l’autore dà le sue opere ne perde il diritto di veto. Ovvero, esse vengono ricontestualizzate, sono costruite delle associazioni analogiche, subiscono modifiche con elementi sovrapposti, grafici, visivi, tipografici, e possono essere mixate con altre immagini, creando un nuovo concetto a partire dal materiale iniziale. Anche le mie sono soggette alla stessa violenza.
Il primo numero è totalmente sperimentale, con una varietà di temi e di sequenze sorprendenti. Dai successivi comincio dal titolo e arrivo a capire cosa vuol esprimere il magazine solo dopo aver fatto questa serie di associazioni. A differenza di un atto politico, dove si parte da un corollario e lo si dimostra, il lavoro prende significato in un secondo tempo, in seguito al flusso di coscienza tra i vari lavori.
Tu vieni dalla pubblicità. Quanto questo background ha influito sull’impostazione di T.M.o.E.?
Ho sempre avuto due vite parallele, quella come artista e come direttore creativo di grandi agenzie. Anche se sembrano due universi simili in realtà sono distanti. La direzione creativa è una gestione delle risorse – umane, di tempo o di idee – concentrate su di un obbiettivo specifico. Lì non emerge mai il talento o l’intuizione ma la mediazione di interessi. Nel magazine invece non c’è mediazione, c’è solo fiducia…
Con la progressione delle uscite sei riuscito a coinvolgere un numero sempre maggiore di artisti. Come li selezioni?
Sono partito da un nucleo con cui avevo già un rapporto. Adesso sta diventando un attrattore, e uno strumento importante di relazione. Essendo un magazine che non si pone come un editore, è molto semplice: guardo le cose, funzionano, le utilizzo… se accettano la regola che non ci sia una revisione successiva. È un confronto lineare ma potente perché è un lavoro tra due artisti; e si crea una grande fiducia dal momento in cui mi affidano del materiale da modificare e pubblicare in un contesto che non conoscono. Il magazine inoltre sta piacendo, che non è scontato, e sta piacendo anche a loro, nella sua libertà visiva.
La grafica è parte integrante del progetto. Scritte e messaggi fluo, ingombranti, che pur nell’apparente economia pungolano lo spettatore-lettore, o lo spiazzano…
Tanto per cominciare c’è pochissimo testo, e funziona sempre su pagine accoppiate; sono frasi che creo o cito, come se fossero lanci di una rivista popolare. Tutto l’effetto grafico e visivo è quello delle riviste trash tipo “Cronaca Vera”, dove hai immagini sparate, forti, soprattutto nella copertina. C’è poco scritto inoltre perché non vuole essere un magazine di critica, dove in qualche modo si danno chiavi interpretative evidenti. In più recupero le pubblicità dove viene oscurato il brand e poco altro, rubate da profumi, automobili, tutte parte dell’immaginario, e le trasformo in opera esse stesse.
Un altro elemento presente è il corpo e in generale la sessualità…
…Che in alcuni numeri è anche abbastanza estrema: immagini pornografiche che posso accoppiare con fotografie eminentemente artistiche o con scatti presi dalla cronaca. C’è tanto corpo perché nella mia arte è fondamentale. Credo sia estremamente contemporaneo essere figurativo; potente e difficile.
Il terzo, Celebrities, Cowboys & Murders, ad esempio, nasce da una riflessione su un artista svizzero che ha elaborato il concetto di metamodernismo e che vive come se fosse Pete Doherty; oltre ad assomigliargli molto ha trasformato il famoso quarto d’ora di celebrità in tutta una vita di esposizione. È interessante come idea ed è il trait d’union dell’intero numero. Nel primo, invece, dove nella cover c’è un mio “ritratto” di Serena Grandi, vi sono tematiche legate alla fine della carne e la sua rinascita. Qui c’è il corpo come target, come malattia, come sessualità, come veste, come oggetto, modificato, spiato; il corpo nel tempo, come evoluzione. A un certo punto c’è un intermezzo, Sex and Philosophy, 30 pagine, curate da Dario Morgante; inserto che dialoga con il magazine ma che è indipendente.
Leggo altri nomi, di altri collaboratori. Sono stabili o cambiano di volta in volta?
I co-editor fissi sono due, Simona Amelotti, che vive e si occupa d’arte in Francia, e Dario Morgante, dal suo esilio a Malta, ex gallerista Mondo Bizzarro, gli unici che hanno uno spazio autogestito e danno la loro interpretazione del tema. E questo senza mai una discussione o un contatto; semmai copro una frase ma non la cambio.
Ricapitolando: il primo non ha titolo; il secondo è Sex, Cigarettes & Disasters; il terzo è il già citato Celebrities, Cowboys & Murders; il quarto è interamente dedicato alla tua opera-performance Rebirth; il quinto è Gangs, Stars & Bodies. Le uscite finora sono state mensili, ma dal momento che è un’opera d’arte non vi è in realtà una programmazione. Cosa hai in mente per i numeri successivi?
Intanto nasce come rivista no stress, sia per me che per gli artisti che ci lavorano. E anche se sto mantenendo un numero al mese non c’è nessuna pianificazione editoriale. Esce perché gli argomenti, le intuizioni sono talmente tanti che c’è una forte motivazione, ma senza un ordine prefissato. Però è diventato già un appuntamento “atteso”.
Parlando di sostenibilità del progetto: come è finanziato?
Qui la tecnologia viene in aiuto perché la rivista è cartacea ma è on demand, quindi chi vuole ricevere un particolare numero lo richiede e gli arriva a casa. La stampa è di alta qualità e rispetta la visione degli artisti. Le persone che conoscono The Magazine of Everything inoltre stanno crescendo: siamo 700 sulla pagina facebook e 250-300 iscritti effettivi alla mailing list, che per una rivista-opera è interessante. La sostenibilità economica è data dal fatto che i costi sono veramente bassi, con un minimo di mark up sulla produzione; mentre l’obiettivo, da un punto di vista prettamente commerciale, potrebbe essere quello di fare del brand content. Che è complesso e ci vorrà del tempo…
Si può dire che l’immaginario di cui è impregnato T.M.o.E. sembra scartare i due decenni sempre in voga dei ’70-’80 per recuperare la memoria dagli anni ’90 in poi?
Da una parte c’è il riferimento alla grafica popolare, ma poi è questo che emerge, come se la rivista fosse a strati. Gli anni ’90 sono il punto di partenza di tutto quello che abbiamo adesso e è dove si è formata la mia visione. Ho sperimentato in prima persona la rivoluzione e il cambiamento del digitale, del ‘94-‘95; sono stato uno dei pionieri del web; ho vissuto dall’interno le speranze e le utopie di quel periodo, il ritorno della centralità della persona, la possibilità che un singolo, con pochissimi mezzi, potesse esprimersi con una platea incredibile. Questo creò una speranza assoluta: c’era il mondo vecchio rappresentato dalla televisione e il mondo nuovo che, nella nostra ingenuità, sembrava libero. Ciò che è successo dopo, e che voglio superare con la rivista, è l’omologazione: oggi il web è rumore di fondo, piattezza che non esalta più i picchi né culturali né umani. È tutto livellato da un brusio indistinguibile. Lavorare con la rivista vuol dire utilizzare il meglio del web a livello di diffusione, comunicazione, ma uscendo dal mezzo.
Questo però lo hanno capito bene anche le testate “tradizionali”…
Sì, ma non hanno ancora trovato un equilibrio economico e una giustificazione per il cartaceo nel momento in cui sta sempre di più scendendo. Invece considerare il cartaceo come un’opera, quindi qualcosa di speciale, è il cuore di The Magazine of Everything. È come se avessi dei collezionisti che comprano i numeri e nella sua piccola distribuzione è di fatto limited edition. È chiaro che la rivista non vuole risolvere i problemi dell’editoria, non ha questo obiettivo o velleità, però mi sono reso conto che l’oggetto fisico, in un mondo dove tutto è semplificato e dove chiunque può crearsi un proprio spazio, ha importanza.
Per concludere, o per ritornare all’inizio: perché The Magazine of Everything, la rivista su ogni cosa?
Per raccontare la complessità del mondo bisogna osare qualsiasi mezzo, è necessario, fondamentale; tutti i contenuti sono importanti. Perché siamo in un mondo multiforme e che sta variando con grandissima velocità, in cui manca però una filosofia a supporto. E, soprattutto, non c’è – e qui ritorniamo alla mia esigenza di essere figurativo – un pensiero che riparli dell’uomo. C’è solo una tecnologia che va talmente veloce ma che si sta dimenticando dell’essere umano. Non voglio aspettare che finisca la guerra per esprimere le mie idee o per ricostruire.
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Artista, fotografo, scrittore, e digital evangelist, Max Scognamiglio è riconosciuto come un pioniere del digital in Italia. Per oltre venti anni ricopre ruoli di direzione creativa in agenzie di comunicazione digitale. Spende tre anni in California, poi si trasferisce a Parigi dove dipinge, fotografa, progetta performance. Tornato in Italia inizia il suo progetto più importante ad oggi: Rebirth con l’obiettivo di portarlo in Francia, a Parigi, luogo al quale è molto legato.
Vulcanico creatore di immagini, mai fermo alle convenzioni ha sempre uno strumento di “pittura” analogico o digitale tra le mani, sia esso il pennello, un dispositivo touch, il computer, la macchina fotografica. Predilige il grandangolo, non solo per riprendere scene d’insieme ma per scattare così vicino al soggetto che quasi lo può sentire respirare. Ha esposto in numerose mostre personali e collettive.
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